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Elenco nomi: Partigiani sardi nel Triveneto
Link parte 1: Cognomi Caduti dalla A alla F
Link parte 3: Cognomi Caduti dalla S alla Z
Si ricorda che nel caso il lettore fosse a conoscenza di ulteriori dettagli, nei commenti alla pagina potrà integrare o chiedere di modificare eventuali inesattezze che, vista la natura della ricerca, sicuramente non mancheranno. Sarebbe molto interessante poter ampliare almeno le biografie più scarne, possibilmente con l’aggiunta delle foto mancanti, in modo da ricordare le gesta e ridare un volto a questi uomini troppo spesso dimenticati.
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Cognomi da G alla P
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– Gavini Gavino, figlio di Rita Campus e Lorenzo (falegname), nacque a Sassari il 5 dicembre 1904.
A 19 anni partecipò come volontario alla Guerra di Libia, venendo anche insignito della Croce d’argento. Dopo qualche anno passato in Cirenaica nel servizio di artiglieria, venne trasferito in vari comandi della Penisola fino ad arrivare a Verona, suo ultimo luogo di residenza. Nella città veneta venne nominato consegnatario del deposito di munizioni ed esplosivi di forte Castelletto, poi, promosso maresciallo, di forte Chievo a partire dal 1938. Ed è proprio a forte Chievo che iniziò a dare il suo contributo alla Resistenza, consegnando bombe a mano e armamenti ai partigiani.
In base a ciò che è riportato nella sua scheda personale, a partire dal giugno del 1944 entrò a far parte della “Missione Rye”, un organismo della Resistenza veronese alle dipendenze dello Stato maggiore del governo italiano. La Missione, nelle sue fasi iniziali, svolgeva compiti informativi attraverso il controllo del traffico della stazione ferroviaria di Porta Nuova. Successivamente ebbe il compito di riorganizzare le bande partigiane che si erano formate in modo spontaneo dopo l’armistizio di Cassibile, ponendole sotto il controllo del Governo Badoglio al fine di creare una sorta di CLN alternativo di stampo cattolico.
Gavini venne arrestato per delazione il 20 novembre 1944 e detenuto prima nella caserma delle Camicie Nere, nella sede dell’Ufficio Politico Investigativo, e poi presso il Palazzo INA, sede del Comando Generale SS e della Polizia di Sicurezza. Da qui venne trasferito momentaneamente nel campo di concentramento e di transito di Bolzano dove assieme ad altri prigionieri diede prova, ancora una volta, della sua ostilità verso i nazisti sabotando biciclette e pianoforti in partenza per la Germania.
Da Bolzano, venne deportato nel campo di concentramento di Mauthausen con il “trasporto n. 111”, convoglio che partì il 14 dicembre 1944 e arrivò a destinazione 5 giorni dopo con 336 prigionieri. A Mauthausen venne identificato come deportato per motivi precauzionali e gli venne assegnata la matricola n. 113987. Come mestiere dichiarò quello di aggiustatore meccanico. Il 29 dicembre fu trasferito a Gusen (campo satellite di Mauthausen), dove morirà l’11 aprile 1945. Venne sepolto nella stessa località, in una fossa comune.
Una lapide lo ricorda all’Arsenale di Verona, a poca distanza da quella di un altro sardo caro alla Resistenza veronese, Mario Ardu.
– Giuliani Giuseppe, figlio di Maria Domenica Mannu e Leonardo, nacque a Cheremule (SS) il 29 settembre 1915.
Carabiniere, fece parte della Brigata “Italia Libera-Campo Croce” fino al 26 settembre 1944, data della sua morte a seguito del massacro avvenuto sul monte Grappa.
Secondo gli storici, la catastrofe del Grappa con le sue centinaia di vittime fu il più sanguinoso e drammatico episodio della Resistenza veneta.
Agli inizi del settembre 1944, sul massiccio erano presenti quattro formazioni partigiane: la brigata “Matteotti”, la più organizzata, formata da 500 uomini guidati dal capitano Angelo Pasini, la brigata “Italia Libera Archeson”, composta da 250 uomini diretti dal maggiore Edoardo Pierotti, l'”Italia Libera Campo Croce”, 300 uomini guidati da Lodovico Todesco e dal capitano Emilio Crestani, il battaglione garibaldino “Montegrappa” (inquadrato nella brigata “Gramsci”), 150 uomini comandati da ufficiali di fede comunista.
Nel comando di Cima Grappa, presso il rifugio Bassano, era presente anche un reparto di carabinieri agli ordini del tenente Luigi Giarnieri, che verrà a sua volta catturato, torturato e impiccato.
Contro queste formazioni, che contavano complessivamente circa 1200 uomini poco addestrati militarmente e dotati solo di armi leggere, si scagliò la tremenda offensiva dei nazifascisti.
Il rastrellamento, denominato “operazione Piave”, fu voluto dall’alto comando tedesco in Italia con la collaborazione di un contingente di volontari ucraini, del reggimento “Bozen” della polizia trentina, e della “M. Tagliamento”. In appoggio, soprattutto per allestire i numerosi posti di blocco e impedire la fuga dei partigiani, intervennero le Brigate Nere di Vicenza e Treviso e alcune compagnie della Guardia nazionale repubblicana dislocate a Crespano e a Cavaso. L’attacco iniziò alle 6.30 del 20 settembre. Un esercito composto da 10.000 uomini agli ordini del colonnello Zimmermann, circondato tutto il massiccio, attuò una manovra a tenaglia che intrappolò le varie brigate. Dopo due giorni di combattimenti e pochi altri di fuga, almeno 200/250 uomini persero la vita negli scontri, dei quali 171 fucilati, bruciati o impiccati, quasi tutti dopo processi sommari. Tra gli arrestati, molti vennero deportati in Germania e non fecero più ritorno.
Particolarmente crudele la sorte riservata a 31 ragazzi per mano del vice brigadiere delle SS Karl Franz Taush, di stanza a Bassano del Grappa. Il 26 settembre i partigiani vennero caricati su un camion, probabilmente dopo essere stati storditi, per essere impiccati agli alberi dei viali di ingresso della città di Bassano. All’ordine di Taush, i giovani fascisti appartenenti alle “Fiamme Bianche” della Guardia nazionale repubblicana accostarono il camion sotto ogni pianta, afferrarono un laccio già posizionato e, sistemate le vittime ne provocarono la morte per impiccagione. I poveri resti, a cui venne appeso un cartello con la scritta “bandito”, furono lasciati esposti allo sguardo della folla per 20 ore, anche se l’ordine iniziale prevedeva 4 giorni.
Tra questi partigiani vi era anche il sardo Giuseppe Giuliani. Sul lato destro del viale cittadino, sull’albero dove trovò la morte, oggi una lapide in metallo ricorda il suo sacrificio.
– Manca Gesuino, figlio di Giuseppina Lilian e Felice, nacque a Terralba (OR) il 3 marzo 1917.
Sposato, residente a Cavasso Nuovo (PN) da pochi anni, dopo l’armistizio di Cassibile lasciò la divisa di Bersagliere dell’esercito ed entrò nel movimento di Resistenza divenendo commissario di compagnia del Battaglione Val Meduna, inquadrato nella 4^ Brigata della 1^ Divisione Osoppo-Friuli.
Il suo sacrificio è da ricollegare agli eventi della Repubblica libera della Carnia, formatasi tra l’estate e l’autunno del 1944 quando il Friuli era stato inserito nella “Operation Zone in Adriatisches Küstenland”, territorio di fatto annesso al 3° Reich. Contro questa Repubblica partigiana, la più estesa d’Italia e posta a ridosso della Germania, 40000 uomini tra tedeschi, fascisti, cosacchi e caucasici scatenarono una violenta controffensiva che causò 900 vittime e che ebbe il suo culmine nella battaglia del monte Rest. Protagonisti dei combattimenti contro i nazifascisti furono due Battaglioni della Osoppo-Friuli, il Monte Canin e il Val Meduna, di cui faceva parte Manca.
Il 7 febbraio 1945, i “Diavoli Rossi” (un gruppo di 22 uomini della “Brigata Montina” appartenente alla Divisione Garibaldi-Friuli) assaltarono il carcere di Via Spalato a Udine, dove erano stati imprigionati i partigiani arrestati durante gli scontri per la difesa della Repubblica. Grazie a questa azione riuscirono a fuggire 73 detenuti tra partigiani e prigionieri politici, 6 dei quali già condannati a morte. L’11 febbraio, appena quattro giorni dopo, scattò la durissima rappresaglia nazifascista. Lungo il muro del cimitero di Udine, vennero fucilati 23 partigiani prelevati da quello stesso carcere, condannati dopo un processo sommario dal Tribunale Speciale per la sicurezza pubblica nella zona d’operazioni del litorale adriatico. Tra le vittime vi era Gesuino Manca, conosciuto ai compagni con il nome di battaglia “Figaro”. Fu rastrellato dai tedeschi nel gennaio 1945, mentre si trovava nei pressi di Cavasso Nuovo.
Il giorno prima dell’esecuzione scrisse una lettera d’addio alla moglie:
“Mia carissima moglie,
Oggi sono stato condannato a morte. Io del male non ne ho fatto a nessuno; se qualcuno crede ch’io gliene abbia fatto, mi perdoni. Io ho sempre sperato e pregato il Signore, e anche tu pregalo per me. Prega Dio che la nostra bambina cresca buona e sana e che ricordi sempre il suo papà che le voleva tanto bene come alla sua mamma, alla nonna e a tutti familiari. Fides mia carissima, quando ti sarà possibile, farai sapere ai miei cari il mio destino. Io muoio giovane, ma nella serenità del Signore, rassegnato, contento e sereno. -Tieni conto di questa mia lettera fino all’ultimo respiro della tua vita-. Quando ti sarà possibile, portami un mazzo di fiori ed io ti sarò presente e risentirò la tua cara voce. Mando, in questo momento estremo particolarmente a te e alla piccola una moltitudine di baci, grandi come la terra e il mare.
Addio Fides! Fatti coraggio. Tuo per sempre.
P.S. Tutti i compagni di Cavasso seguono la stessa mia sorte“.
– Marcia Enrico, figlio di Efisio, nacque a Maracalagonis (CA) l’8 novembre 1917.
Appartenente all’Arma dei Carabinieri, dopo l’armistizio di Cassibile diede il suo contributo alla Resistenza operando, dal maggio del 1944, nella Brigata Cairoli – Divisione Nannetti.
Non si hanno molti dettagli sulla sua vita e sul ruolo che ebbe nella formazione partigiana. Ciò che è noto è che fu una delle vittime della rappresaglia avvenuta il 14 febbraio 1945 a Silvella, frazione del comune di Cordignano in provincia di Treviso.
Pochi giorni prima, il 10 febbraio, il sergente Guido Marini del Battaglione “NP” della Decima Divisione (X MAS) si era recato a Cordignano dove risiedeva la sua famiglia, e di lui si era persa ogni traccia. Appresa la notizia, Nino Buttazzoni, comandante del Battaglione “NP” di stanza a Valdobbiadene e cugino del sergente, si recò a Cordignano con tre Compagnie di fanti di marina, minacciando l’uccisione di 9 ostaggi (catturati i giorni precedenti dalla Decima MAS) se non avesse avuto informazioni sullo scomparso. Prima della scadenza dell’ultimatum, lo stesso Buttazzoni fece fucilare 6 degli ostaggi detenuti, intimando di continuare le esecuzioni per la mancanza di collaborazione. Nel frattempo, ordinò alla Compagnia Mortai del suo Battaglione di bombardare i paesi di Sarmede, Montaner e lo stesso Cordignano che però non subirono danni per la decisione del tenente Fraschini di indirizzare i colpi in zone non abitate. Le esecuzioni furono fermate solo grazie all’intervento del vescovo di Vittorio Veneto, Giuseppe Zaffonato, che fece pressione sul prefetto Bellini e sul Comando della Guardia Nazionale Repubblicana affinchè bloccassero le violenze perpetrate dalla Decima Mas.
A Silvella, sul muro della casa dove avvenne la fucilazione, è presente una targa che ricorda il sacrificio dei 6 caduti. Tra i nomi vi è quello del giovane carabiniere sardo Enrico Marcia, deceduto a soli 27 anni.
– Marras Francesco, figlio di Rosalia Carta e Giuseppe, nacque a Mores (SS) il 5 maggio 1920.
Pochissime le informazioni trovate.
La scheda personale redatta dalla “Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” attesta che Marras fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” a partire dall’aprile del 1944. Morì l’8 febbraio 1945 a San Tommaso, frazione di Aidussina oggi in territorio sloveno, e lì fu tumulato.
L’8 febbraio, la “Brigata Triestina” di cui faceva parte Marras venne coinvolta nei combattimenti contro i tedeschi nella zona del monte Caven e Predmeja, in Aidussina. La Brigata subì delle perdite e con molta probabilità fu in questa occasione che Marras perse la vita. Altri partigiani vennero fatti prigionieri e furono rinchiusi nel carcere di Gorizia e nella Risiera di San Sabba.
– Meloni Bartolomeo Francesco, figlio di Anna Luigia Porcu e Francesco Meloni Serra (impiegato), nacque a Cagliari il 10 agosto 1900. Originario di una famiglia benestante di Santu Lussurgiu, nobile per meriti agrari, nel 1917 si iscrisse al corso di Ingegneria all’Università di Cagliari, per poi trasferirsi due anni dopo al Politecnico di Torino dove conseguì la laurea. Lasciata Torino dopo aver terminato gli studi, prese residenza a Venezia, città in cui divenne ispettore generale delle Ferrovie dello Stato. Nel 1936, come tutti i funzionari statali, fu costretto a iscriversi al Partito fascista, senza mai partecipare alla vita del regime. Dopo l’armistizio di Cassibile, fu attratto dalle idee del Partito d’Azione anche se la sua non fu un’adesione repentina, a causa delle incertezze dovute al problema di conciliare le idee laiche e socialiste del movimento con la sua fede cristiana. Grazie all’attività politica nel Pd’A, entrò in contatto con Silvio Trentin, deputato antifascista per lungo tempo esule in Francia. Trentin, dopo essere ritornato in Italia, in una lettera a Emilio Lussu del 23 ottobre ’43 scriveva a proposito di Meloni:
“Da lunedì mi trovo praticamente investito della Resistenza in tutto il Veneto. Credo che potremmo metter in piedi qualcosa di grande e di bello. Ho per luogotenente un tuo concittadino MAGNIFICO”, dove magnifico è scritto in stampatello a sottolineare la stima verso l’ingegnere sardo.
Armando Gavagnin, fra i fondatori del Partito d’Azione e sindaco di Venezia dopo la Liberazione, nel suo libro di memorie “Vent’anni di resistenza al fascismo” ricorda la figura di Meloni. Mosso da una voglia di giustizia, l’ingegnere si adoperò per creare un’organizzazione ferroviaria antifascista escludendo chiunque fosse stato coinvolto con il regime. “In quella lista, — ricorda Gavagnin —, che io stesso presentai ai dirigenti ferroviari il suo nome non c’era e invano feci insistenza perché figurasse. Egli non ne volle sapere. Era stato iscritto al partito fascista e questo stabiliva una incompatibilità, che secondo lui non poteva essere superata. Invano feci distinzioni, parlai di necessità e di esperienza. Fu irremovibile e volle che fra i nomi indicati figurassero in prima linea quelli di persone mai iscritte al partito“.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, Meloni decise di passare all’azione diretta. Insieme a un gruppo di ferrovieri e volontari, contribuì alla fondazione di due Brigate, la 10^ e l’11^ Matteotti, che agirono in tutto il Veneto.
In quei durissimi mesi, i tedeschi cercavano di convogliare i prigionieri italiani verso la Germania: erano soprattutto soldati e ufficiali che dovevano diventare forza lavoro al servizio dei nazisti, mentre per le formazioni partigiane era importante che rimanessero nel Paese per dare un contributo alla guerra di Liberazione.
Meloni, grazie al suo ruolo e alle sue conoscenze nella rete ferroviaria, riuscì a dare un prezioso aiuto alla Resistenza veneta: attivissimo, con i suoi compagni portò avanti continui sabotaggi ai convogli ferroviari carichi di prigionieri italiani, deviò treni destinati ai campi di concentramento del Nord Europa verso il Friuli e la Jugoslavia, contribuì a salvare ebrei del ghetto di Venezia, procurò armi, munizioni, equipaggiamenti ai partigiani. Per fermare o rallentare i treni, i ferrovieri alzavano le traversine, introducevano nei convogli alimenti e, spesso, anche “piedi di porco” per permettere ai prigionieri di sollevare le assi dei vagoni e fuggire durante le soste. Ben presto si diffuse la leggenda che i treni che passavano da Venezia arrivavano in Germania vuoti. Non è chiaro il numero di persone salvate in questo modo dalle deportazioni, ma ciò che è certo è che il ruolo svolto da Meloni e dai suoi ferrovieri contribuì in maniera determinante al rafforzamento del movimento partigiano.
I continui sabotaggi sulla linea gestita da Meloni e il suo attivismo crescente, lo esposero ai sospetti delle SS che lo arrestarono il 4 novembre 1943 nel suo ufficio mentre i fascisti perquisivano e saccheggiavano la sua casa. Fu prima condotto nel carcere fascista di Santa Maria Maggiore, dove restò due mesi e mezzo, poi trasferito a Verona e infine nel campo di concentramento di Dachau dove venne registrato con il numero di matricola 64720. Toccante fu la testimonianza di don Giovanni Fortin, suo compagno di prigionia:
“Nella disperazione, nell’abbattimento, nella fame. Chi era la forza morale della piccola schiera? Era l’ing. Meloni. Il suo corpo sembrava di giorno in giorno assottigliarsi, ma il suo spirito ingigantiva maggiormente. I giorni di prigionia veneziana avevano fiaccato il suo corpo, ma egli era ancora sostenuto, pur essendo tanto gracile; era il morale che rinforzava il suo corpo, era una visione lontana di Bene, che egli pensava di dover compiere un giorno tornato in Patria”.
Da Dachau, il 20 marzo 1944 venne spostato nel campo di Flossenbürg dove arrivò 5 giorni dopo. Registrato con il numero di matricola 7441, fu subito avviato ai lavori forzati. Una sera, ormai fortemente indebolito e denutrito, cadde in un sonno comatoso e non riuscì a svegliarsi per l’appello; il sorvegliante lo trovò riverso sul misero giaciglio e lo massacrò a frustate con il nerbo di bue. Trasferito in pessime condizioni di nuovo a Dachau il 4 aprile 1944, morì nel campo il 10 luglio 1944 alle ore 6 e 15 minuti.
A Bartolomeo Meloni è stata concessa la medaglia d’argento alla memoria con la seguente motivazione:
“Ispettore principale delle Ferrovie dello Stato, aderiva fin dall’inizio al movimento clandestino di liberazione mettendo al servizio della causa il suo ingegno, la sua capacità tecnica e professionale. Raccoglieva armi, munizioni e materiale per distribuirlo alle formazioni partigiane combattenti, sabotava in modo irreparabile locomotive, carri ed impianti ferroviari, deviava l’istradamento di interi convogli avviandoli al confine jugoslavo per dare modo ai prigionieri alleati di unirsi ai partigiani slavi. Arrestato a Venezia per la sua attività patriottica che non conosceva tregua nè pericoli, sopportava interrogatori, tormenti e sevizie senza nulla svelare, né valse la lusinga di aver salva la vita a smuoverlo dal fiero silenzio. Deportato a Dachau, non reggeva alle sofferenze e alla fame e, consunto dal fiero morbo contratto, moriva da eroe purissimo offrendo alla Patria l’olocausto della vita. Il suo cadavere non ebbe la pace della sepoltura e le sue ceneri, dopo la cremazione, furono disperse al vento. Venezia, 8 settembre 1944 – Dachau, 10 luglio 1944“.
– Meloni Pietro, figlio di Giuseppina Perra e Giovanni (bracciante), nacque a Sestu (CA) il 23 novembre 1899. Di famiglia poverissima, già a 7 anni fu avviato al lavoro nei campi e non potè frequentare le scuole ma, nonostante le difficoltà, imparò a leggere e scrivere da autodidatta. Raggiunti i 16 anni, riuscì ad arruolarsi nella Guardia di Finanza e vi rimase fino all’età di 24 anni quando, ferito in servizio, fu congedato con una piccola pensione insufficiente per vivere. Antifascista convinto, Meloni decise di emigrare in Francia e qui, tra un lavoro e un altro, unì a un’intensa attività politica lo studio dei testi classici del movimento operaio. In Francia conobbe anche la sua futura moglie, Rosa Tosoni, nata a Sona (VR) nel maggio 1901; dopo il matrimonio si stabilirono a Lione e parteciparono alle attività del Partito comunista locale. Meloni divenne segretario della sezione comunista di Modane, piccolo centro al confine con l’Italia e, con l’occupazione tedesca, fu attivo insieme alla moglie nella Resistenza francese. Nel 1941 ritornarono in Italia, a Verona. Lui trovò un impiego alla Mondadori e diventò membro del Comitato federale clandestino del PCI, Rosa fu assunta nell’Arsenale militare. Dopo l’armistizio di Cassibile i due coniugi parteciparono attivamente alla lotta di Liberazione nella provincia di Verona. Meloni fece parte del 2° CLN veronese e divenne ben presto uno dei comandanti partigiani più importanti del territorio, conosciuto dai compagni con il nome di “Misero”.
Secondo quanto riportato nella scheda personale, Meloni entrò a far parte delle formazioni partigiane locali già nell’ottobre del 1943. Traditi da un conoscente che organizzò un finto incontro nei pressi della chiesa parrocchiale di San Massimo, frazione di Verona, i due coniugi vennero catturati dalle SS il 12 ottobre 1944. Rinchiusi nel carcere ricavato nel Palazzo INA (sede del Comando Generale SS e Polizia di Sicurezza), vi uscirono, segnati dalle torture, per essere trasferiti nel Campo di concentramento e transito di Bolzano. Il 20 novembre 1944, Meloni venne deportato nel Campo di concentramento di Mauthausen con il “trasporto n. 104” assieme ad altri 278 prigionieri. All’arrivo venne identificato come deportato per motivi precauzionali e gli venne assegnata la matricola n. 110326. Il 6 dicembre fu trasferito a Gusen (campo satellite di Mauthausen), dove morì il 13 febbraio 1945; fu sepolto in una fossa comune. Anche nel campo organizzò con i reclusi quella che è stata definita come la “Resistenza del filo spinato”.
Rosa, detenuta nel Campo di Bolzano, riuscirà a sopravvivere alla guerra e anche da pensionata continuerà a essere attiva nelle organizzazioni democratiche veronesi.
Dei dodici componenti del 2° CLN veronese, nove furono arrestati tra il luglio e il dicembre 1944 e internati nei campi di concentramento in Germania. Tornarono solo in tre: Paolo Rossi, Arturo Zenorini e il già menzionato Vittore Bocchetta (vedi scheda del partigiano Ardu). Nel 1955, nel primo decennale della Resistenza, il Comune di Verona ha conferito alla memoria di Pietro Meloni una medaglia d’oro per il contributo dato alla lotta partigiana. Il 25 aprile 1989 fu collocata in Palazzo Barbieri una lapide a ricordo del suo sacrificio e di quello dei compagni del CLN.
Fu inoltre insignito della medaglia di Bronzo al Valor militare con la seguente motivazione: “Membro del C.L.N. provinciale nel veronese, animatore e organizzatore delle forze partigiane locali. Arrestato con altri compagni del suo C.L.N., affrontava con dignitosa fierezza – in un irriducibile generoso silenzio su uomini e fatti della Resistenza – lo strazio di lunga tortura, premessa di una deportazione conclusa con il suo spegnersi in un lager nazista. Verona, 1° ottobre 1943 – Gusen, 13 febbraio 1945“.
– Merlo Giovanni (o Gianni), figlio di Maria Benevento e Angelo, nacque a Sassari il 18 febbraio 1922.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, anche Merlo, soldato dell’esercito, abbandonò la divisa militare e prese parte alla guerra di Liberazione. Come indicato nella scheda personale redatta dalla “Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano”, Merlo entrò nella “Brigata Avesani” (zona Verona) il 1° marzo 1944 e vi rimase fino al 26 aprile 1945, data della sua morte.
Per la mancanza di informazioni non è stato possibile tracciare un quadro più dettagliato della sua storia. Sappiamo però che a partire dal 25 aprile 1945, nel territorio veronese ci fu una grande insurrezione guidata dalle formazioni partigiane locali per mettere in fuga i nazifascisti prima dell’arrivo degli Alleati. La guerriglia in alcune zone durò per due giorni consecutivi, lasciando sul campo decine di vittime tra i partigiani. Con ogni probabilità, Merlo cadde a seguito di questi violenti scontri, all’alba della Liberazione.
– Mesina Egidio, figlio di Giovanni, nacque a Orgosolo il 9 gennaio 1923. Conosciuto con il nome di battaglia “Murrette”.
Pochissime le informazioni reperite.
Grazie alla sua scheda personale, sappiamo che anch’egli come tanti suoi corregionali fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” -Brigata Triestina-. Militare sbandato dopo l’armistizio di Cassibile, entrò nella formazione il 7 giugno 1944 e vi rimase fino al 20 marzo 1945, data del decesso. Faceva parte della squadra dei corrieri e, per il coraggio dimostrato in alcune azioni, nel dicembre del 1944 venne premiato dal comando con la somma di 100 lire. Morì a Gradiscutta, all’epoca in provincia di Gorizia, dove fu tumulato. Analizzando le schede degli altri combattenti sardi si è osservato che con molta probabilità perse la vita nelle stesse circostanze del partigiano Ferruccio Casu, visto che data e luogo di morte coincidono.
Il suo sacrificio è ricordato in un murale a Orgosolo, suo paese natale che gli ha dedicato anche una via.
– Micheli Alessandro, nato in Sardegna [da identificare].
Il suo sacrificio venne ricordato dall’orgolese Luigi Podda, compagno di lotta nella “Divisione Garibaldi Natisone”. Micheli, appartenente alla “Brigata Triestina” dall’aprile 1944, perse la vita il 19 febbraio 1945 a Ranziano, oggi piccolo centro della Slovenia, dove venne tumulato.
Purtroppo al momento non sono state trovate altre informazioni.
– Micheli Giuseppe, figlio di Maria Mattis e Biagio, nacque a Porto Torres nel 1918.
Gli unici dati sul combattente sono quelli ricavati dalla sua scheda personale. Sappiamo che divenne partigiano combattente nel settembre 1943, quando entrò nella “Divisione Garibaldi Natisone” operante nel territorio del Friuli Venezia Giulia e successivamente in terra jugoslava. Perse la vita il 19 aprile 1944.
– Muolo (o Muollo) Pasquale, figlio di Maria Grazia De Angelis e Raffaele, nacque a Oristano il 10 febbraio 1923. Residente a Chingano San Domenico (AV).
Grazie alla scheda personale redatta dalla “Commissione regionale triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” scopriamo che nel gennaio del 1944, Muolo entrò a far parte della “3^ Brigata Damiano Chiesa”, formazione partigiana operante nel padovano, di carattere apartitico e autonomo. Anche se non possiamo ricostruire nel dettaglio la sua storia, è certo che Muolo fu una delle vittime della rappresaglia per la morte di Bartolomeo Fronteddu, della quale furono falsamente accusati dieci partigiani. Il decesso del colonnello sardo, avvenuto il 16 agosto 1944, in realtà nulla aveva a che fare con la lotta di Liberazione, essendo questo un crimine maturato all’interno dell’ambiente fascista, probabilmente a causa di gelosie per una donna contesa. Sta di fatto che all’omicidio fu attribuita una motivazione politica e i fascisti approfittarono della situazione per giustiziare dieci persone prelevate dal carcere cittadino. Il 17 agosto 1944, solo un giorno dopo l’omicidio di Fronteddu, tre di loro vennero impiccate sul luogo dell’attentato, in via Santa Lucia a Padova: Clemente Lampioni, Ettore Calderoni e Flavio Busonera (di Oristano); le altre sette, Luigi Pierobon, Cataldo Pressici, Primo Barbiero, Franco Panella e Saturno Bandini, Antonio Franzolin e il sardo Pasquale Muolo furono fucilate nel cortile della caserma di Chiesanuova. Muolo, renitente alla leva, era stato catturato durante un rastrellamento.
Una lapide a ricordo del loro sacrificio è stata collocata nella caserma dove avvenne l’esecuzione.
– Pau Bachisio, figlio di Teresa Sechi e Giovanni, nacque a Buddusò (SS) il 30 agosto 1919. Nome di battaglia “Valerio”.
Dopo l’armistizio di Cassibile, anche Pau abbandonò la divisa militare per prendere parte alla guerra di Liberazione dal nazifascismo. Entrò nella “Divisione Garibaldi Destra Tagliamento” nel gennaio del 1944, diventando comandante di nucleo partigiano il 20 ottobre 1944. Nel dettaglio, si ricorda l’appartenenza al Battaglione “Bertin-Longo”, Brigata “Anthos” della “Ippolito Nievo B”.
Il suo nome è legato all’eccidio di Blessaglia, in cui persero la vita 8 partigiani, di cui due sardi.
La sera del 24 e del 25 novembre 1944 i partigiani della zona fecero brillare le mine sistemate su due ponti di Blessaglia, frazione del Comune di Pramaggiore (VE). In realtà i ponti non vennero distrutti e si contarono solo lievi danni, ma la risposta dei nazifascisti fu comunque durissima. All’azione partigiana, il 26 novembre seguì un ampio rastrellamento che portò alla cattura di 5 combattenti (Michail Zinovski, Giodo Bortolazzi, Casimiro Zanin, Flavio Stefani, Giuseppe De Nile) e al ferimento -o uccisione secondo altre fonti- di un sesto uomo, il sardo Bachisio Pau. Probabilmente Pau venne catturato dopo uno scontro a fuoco in cui rimase gravemente ferito e venne poi trasportato in condizioni critiche a Blessaglia e ivi impiccato il 27 novembre 1944.
I partigiani, irriconoscibili per le torture subite, dovettero sfilare col cappio al collo davanti a una folla impietrita, costretta ad assistere al macabro epilogo. A nulla servirono le suppliche di don Luigi Peressutti per salvare le vite dei giovani, che dopo la benedizione furono impiccati ai platani che costeggiavano la via Postumia di Blessaglia. I loro corpi, per ordine dei tedeschi, rimasero esposti allo sguardo della popolazione per due giorni e successivamente furono sepolti in una fossa comune del paese.
Il 29 novembre, un nuovo rastrellamento avvenuto nella frazione di Belfiore portò alla cattura di altri due partigiani, Alfredo Fontanel e il sardo Antonio Cossa. I due, dopo interminabili torture avvenute presso il comando tedesco di Pravisdomini, vennero impiccati il 2 dicembre e i loro corpi rimasero appesi fino al 4, in quegli stessi alberi che avevano testimoniato il sacrificio dei loro compagni.
Sul luogo dell’eccidio è stata posta una lapide commemorativa, una roccia con incisi i nomi dei martiri di Blessaglia, purtroppo spesso vandalizzata.
– Perra Pasquale, figlio di Maria Spada e Antonio, nacque a Pirri (Cagliari) il 19 giugno 1889. Residente a Cividale del Friuli. Nome di battaglia “Pettine”.
Anche Perra fu uno dei tanti militari che dopo l’8 settembre lasciarono la divisa ed entrarono a far parte delle formazioni partigiane. La scheda personale attesta che il combattente fece parte della “Divisione Picelli Tagliamento” dal 7 giugno 1944 al 28 aprile 1945, data della sua morte. Collaboratore e informatore delle forze partigiane locali, perse la vita a Cividale del Friuli, massacrato sotto la volta di Borgo San Pietro con scariche di mitra dalle SS mentre accorreva a informare i partigiani in procinto di occupare la città.
La Banca dati dei caduti del Ministero della Difesa conferma come data di morte il 28 aprile.
– Pinna Antonio, figlio di Peppa Piliarvu e Baingio (agricoltore), nacque a Osilo (SS) il 12 marzo 1908. Nome di battaglia “Costante”.
Carabiniere, dopo l’armistizio di Cassibile decise di aderire alla lotta contro il nazifascismo entrando a far parte, nel maggio 1944, della Brigata Mazzini, Divisione Nino Nannetti. Pinna fin da subito fu promosso comandante di nucleo partigiano con il grado di sergente. Il suo nome è legato all’episodio di Santa Cristina, frazione di Quinto di Treviso (TV), che costò la vita a due partigiani.
Tra l’agosto e il novembre 1944 le formazioni partigiane dislocate nella zona sabotarono in tre diverse occasioni la linea ferroviaria Treviso – Padova, all’altezza di Santa Cristina. In risposta a queste azioni, gli squadristi della XX Brigata Nera di Treviso minacciarono di morte la popolazione, diedero alle fiamme i carri di due carovane di zingari accampate nella piccola frazione e, in occasione dell’ultimo sabotaggio avvenuto il 1° novembre, invasero il paese sparando in aria e costringendo il sacerdote che officiava la messa per la festa di Ognissanti a esprimere il proprio rammarico per l’accaduto. A causa di una delazione, durante il rastrellamento esteso a tutto il territorio comunale gli squadristi catturarono due partigiani nascosti in un fienile, Gino Comiotto e Antonio Pinna, e li trascinarono a Santa Cristina. Camiotto fu barbaramente torturato, gli spezzarono le ossa a bastonate, perse un occhio e infine fu ucciso con una scarica di mitra nei pressi del cimitero locale. Pinna venne fucilato davanti alla chiesa del paese, senza neppure ricevere assistenza religiosa.
– Piras Canu Salvatore, figlio di Maria Pinna e Giuseppe, nacque a Dorgali (NU) il 17 gennaio 1920.
Piras, come attesta la sua scheda personale, fu capo di nucleo partigiano nella “Divisione Garibaldi Natisone”. La formazione, attiva in Friuli e successivamente anche in territorio jugoslavo, contava al suo interno la presenza di un centinaio di combattenti sardi, la gran parte giovani militari sbandati. Salvatore Piras fece parte del primo gruppo di 54 soldati guidati dall’orgolese Luigi Podda che, mobilitati dalla Repubblica di Salò, alla fine del gennaio 1944 avevano disertato le file del battaglione dislocato a Opicina (TR) per combattere contro nazisti e fascisti al fianco della formazione triestina.
Sebbene presente da poco tempo all’interno della “Garibaldi”, Piras assieme ad altri 5 ragazzi sardi si propose come volontario per un’impresa segreta e rischiosissima preparata dal comandante del “Battaglione triestino d’assalto” Remo Lagomarsino e dal vicecomandante Riccardo Giacuzzo. La notte del 3 febbraio 1944, 22 giovani capeggiati da Giacuzzo si incamminarono verso Merna, con addosso bombe a mano, fucili mitragliatori e bottiglie incendiarie. Percorsi 25 km, arrivarono al campo di aviazione di Ronchi dei Legionari dove sostavano gli aerei tedeschi “Junkers”, obiettivi della missione. Due uomini con le mitragliatrici si posizionarono ai lati del campo, protetto da un fosso colmo d’acqua, gli altri procedettero verso la pista dove erano parcheggiati i velivoli e attesero che tutti i compagni avessero raggiunto l’aereo assegnato. Aperta la porta della carlinga, vi lanciarono quasi simultaneamente bombe a mano e Molotov e si diedero alla fuga, coperta dal fuoco delle mitragliatrici amiche che risposero ai colpi dei tedeschi, colti di sorpresa dall’attacco. Durante la precipitosa ritirata, due partigiani vennero gravemente feriti e, rimasti isolati dal resto del gruppo, cercarono di attraversare il fiume Dottori che scorreva nei dintorni per trovare riparo sull’altra sponda. Purtroppo la corrente li trascinò via e i loro corpi vennero recuperati giorni dopo dagli abitanti di Ronchi, incastrati in una chiusa della foce. I ragazzi erano Carmine Congiargiu e Salvatore Piras, tutti e due sardi. Il loro sacrificio non fu vano: l’impresa ebbe come risultato quattro aerei distrutti e altri quattro danneggiati e fu talmente eclatante da essere menzionata anche da Radio Londra e Radio Mosca.
– Piredda Salvatore, figlio di Giovanna Antonia Marras e Giovanni Maria, nacque a Ossi (SS) il 15 maggio 1923. Nome di battaglia “Tissi”.
Contadino, fu chiamato alle armi poche settimane prima della destituzione di Mussolini e venne arruolato in aviazione. Alla data dell’armistizio, Piredda era stato trasferito con altri suoi compaesani e futuri partigiani (Cuggia, Martinez, Masia, Mura) al 51° Reggimento di Fanteria “Alpi”, presso la caserma Fortebraccio di Perugia. Dopo aver avuto l’ordine di pattugliare il capoluogo umbro l’8 e il 9 settembre, Piredda e gli altri soldati di leva vennero fatti rientrare in caserma per consegnare le armi, salvo ritrovarsi prigionieri e rinchiusi negli stessi locali. Esclusa la possibilità di far ritorno in Sardegna, affamati, senza riparo, braccati dai soldati tedeschi che davano la caccia ai disertori e attirati dalla propaganda messa in atto dal regime per raccattare gli sbandati, i militari decisero di arruolarsi nel Battaglione Angioy, il cui centro di raccolta si trovava a Capranica (VT). Lo scopo dell’addestramento, ignoto ai soldati, era quello di utilizzare il Battaglione sardo per la repressione partigiana nelle provincie di Gorizia e Trieste, al confine con la Slovenia, e per questo motivo il reparto venne inviato tra il 10 e l’11 dicembre a Poggioreale del Carso, oggi Villa Opicina. L’obiettivo di Barracu, però, non fu raggiunto. Dopo la spettacolare diserzione organizzata da Luigi Podda che abbandonò il Battaglione insieme a una cinquantina di militari sardi, seguirono altre rocambolesche fughe talmente numerose da rendere necessario lo scioglimento del presidio di Opicina.
Stabiliti i contatti con la Resistenza, anche Piredda abbandonò la formazione repubblichina ed entrò a far parte della “Divisione Garibaldi Natisone” tra marzo e settembre 1944 (la scheda personale indica il mese di giugno). Non si conoscono le operazioni a cui prese parte Piredda, ciò che è noto è che perse la vita il 3 febbraio 1945, a Selva di Tarnova (Slovenia): non fece più ritorno da un servizio di guardia, come testimoniato dal suo compaesano e commilitone Cuggia. Secondo i familiari fu sepolto nel cimitero di Trieste.
– Piu Carmelo, figlio di Felicita Varsi e Stefano, nacque a Cagliari il 16 luglio 1899. Residente a Padova.
Anche in questo caso, l’unica informazione certa riguardante il periodo precedente all’ingresso nelle formazioni partigiane è che Piu era stato un militare dell’esercito italiano. Dopo l’armistizio fece parte della “Brigata Garibaldi -Settimo Battaglione Busonera- zona Padova” a partire dal 1 marzo 1945 e fino al 28 aprile dello stesso anno.
La sua morte è da ricollegarsi alla Liberazione di Padova che fu particolarmente complicata a causa della minaccia del comando tedesco di reprimere nel sangue ogni tentativo di sollevazione. Prezioso fu l’arresto del generale von Alten con il suo stato maggiore, comandante della zona di Ferrara, catturato mentre attraversava il centro di Padova con il generale von Schering. I due prigionieri vennero costretti, assieme al generale Jurgen von Armin fermato da un altro colpo di mano dei partigiani, a sottoscrivere il patto di resa alle ore 12.20 del 28 aprile 1945.
Uno dei protagonisti di questa giornata fu Carmelo Piu che, con la sua squadra, riuscì a bloccare in via Umberto I l’automobile del gen. von Alten, rimanendo ucciso nello scontro a fuoco. Il partigiano sardo perse la vita proprio il 28 aprile 1945, a poche ore dalla Liberazione della città.
Una lapide ricorda il suo sacrificio nel Municipio di Padova.
Fonti principali:
– “Storia della resistenza veronese”, di Maurizio Zangarini;
– Schede personali: Commissione regionale triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano;
– Archivio tedesco: Arolsen Archives;
– “L’antifascismo in Sardegna”, a cura di Brigaglia, Manconi, Mattone e Melis;
– “Antifascisti e partigiani sardi”, di Tonino Mulas;
– “Quelli della Montagna: storia del Battaglione Triestino d’Assalto”, di Giacuzzo e Scotti;
– “Itinerario di lotta, cronaca della Brigata d’assalto Garibaldi – Trieste” di Riccardo Giacuzzo e Mario Abram;
– “Verona la guerra e la ricostruzione”, a cura di Maristella Vecchiato;
– Omaggio al sassarese che morì per la libertà, dal sito: “La Nuova Sardegna“;
– Sulla missione Rye, dal sito: “Storia Minuta” di Adriano Maini;
– Banca dati delle deportazioni veronesi;
– Info sul Trasporto 111, dal sito: “Da Verona ai lager“;
– “Sui sentieri dei partigiani nel massiccio del Grappa”, di Lorenzo Capovilla, Giancarlo De Santi;
– “Il massacro del monte Grappa“, di Lorenzo Capovilla;
– “Il rastrellamento del Grappa (dal 20 al 26 settembre 1944)”, di Livio Morello e Gigi Toaldo;
– “La libera Repubblica partigiana di Carnia”, dal sito A.N.P.I.;
– La lettera, dal sito: “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana“;
– L’assalto alle carceri di via Spalato a Udine, dal sito: “Friuli Venezia Giulia in camper“;
– Episodio di Silvella Cordignano, dal sito: “Stragi nazifasciste“;
– Bartolomeo Meloni, dal sito: “La bocca del vulcano“;
– “Trasporto n° 30 – Verona / Dachau”, dal sito “Da Verona ai lager“;
– Le imprese dei Partigiani sardi, dal sito: “Tre passi avanti”;
– Pietro Meloni, Schede A.N.P.I.;
– Episodio di Padova, dal sito: “Stragi nazifasciste“;
– Eccidio di Blessaglia, dal sito: “Stragi nazifasciste“;
– Episodio di Santa Cristina, dal sito: “Stragi nazifasciste”;
– Per Salvatore Piredda, il saggio “Dieci partigiani ossesi nella Resistenza italiana”, di Roberto Loi Piras;
– Centro Studi Francesco Feltrin, “L’elenco dei caduti della Resistenza“;
– “Quel 28 aprile 1945, ecco come fu liberata Padova”, dal sito: “Il Mattino di Padova“.