Si ricorda che nel caso il lettore fosse a conoscenza di ulteriori dettagli, nei commenti alla pagina potrà integrare o chiedere di modificare eventuali inesattezze che, vista la natura della ricerca, sicuramente non mancheranno. Sarebbe molto interessante poter ampliare almeno le biografie più scarne, possibilmente con l’aggiunta delle foto mancanti, in modo da ricordare le gesta e ridare un volto a questi uomini troppo spesso dimenticati.
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Cognomi da S alla Z
– Saba Salvatore, figlio di Giuseppe, nacque a Serdiana (CA) il 22 luglio 1921. Nome di battaglia “Cagliari”.
Saba fu vittima di uno degli episodi più drammatici e controversi della Resistenza, il cosidetto eccidio di Porzûs avvenuto nel febbraio 1945, che costò la vita a un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo uccisi da un gruppo di partigiani del Partito Comunista. Si trattò di un massacro scellerato e ingiustificato e di uno scontro atroce tra partigiani italiani che avrebbero dovuto avere come unico obiettivo solo la lotta contro nazisti e fascisti. La gravità dell’accaduto spiega perchè, nonostante siano trascorsi quasi 80 anni, ancor oggi l’eccidio è fonte di numerose polemiche in ordine ai mandanti e alle sue motivazioni. Luogo della tragedia fu il delicato confine orientale, zona con una forte presenza slava, in cui si intrecciavano i rapporti contrastati tra partigiani osovani (una formazione autonoma, in cui militavano soprattutto cattolici e laico-socialisti), partigiani comunisti e la controparte jugoslava.
Il 7 febbraio 1945, nelle malghe di Topli Uorc (Porzûs), situate nel comune di Faedis (UD), un centinaio di garibaldini comandati da Mario Toffanin e appartenenti in gran parte ai battaglioni GAP “Ardito” e “Giotto” uccisero 3 uomini della Brigata Osoppo, Francesco De Gregori, Gastone Valente, Giovanni Comin e una donna, Elda Turchetti, segnalata come spia da Radio Londra e recatasi alle malghe per chiarire la propria posizione. Gli altri componenti del comando di brigata vennero fatti prigionieri e condotti al Bosco Romagno (nel comune di Cividale del Friuli, in provincia di Udine) per essere interrogati e sommariamente processati. Dal 9 al 18 febbraio, 13 di loro furono barbaramente uccisi in varie località limitrofe, sempre dai GAP. Le vittime furono Egidio Vazzas, Franco Celledoni, Giuseppe Urso, Giuseppe Sfregola, il sardo Salvatore Saba, Pasquale Mazzeo, Guidalberto Pasolini, Antonio Previti, Angelo Angeli, Gualtiero Michelon, Primo Targato, Renzo D’Orlandi e Antonio Cammarata.
Salvatore Saba, carabiniere prima dell’armistizio di Cassibile, dal 12 luglio 1944 fece parte della 1^ Brigata, 3^ Divisione “Osoppo Friuli”. Varie fonti indicano come data di morte il 9 febbraio, altre il 10, e incerto è pure il luogo del decesso visto che per alcune sarebbe stato fucilato nei pressi di Bosco Musich, a Restocina (frazione di Dolegna del Collio, in provincia di Gorizia), secondo altre direttamente a Bosco Romagno.
– Sanna Giorgio, figlio di Maddalena Carru e Giovanni, nacque a Bitti (NU) il 30 giugno 1924. Nome di battaglia “Varadda”.
Servo pastore prima della mobilitazione militare, lasciò la divisa d’aviere a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e, come tanti altri sardi, raggiunse Civitavecchia nella vana speranza di trovare un collegamento navale per l’isola. Si ritrovò così a cercare di sopravvivere nelle campagne del Lazio e si arruolò, molto probabilmente per necessità, nel Battaglione Angioy dislocato a Caprarica e successivamente al confine tra il Friuli e la Jugoslavia. L’esperienza nella formazione repubblichina durò pochissimo visto che Sanna e i suoi compagni, compresi i reali obiettivi della formazione, abbandonarono la caserma di Villa Opicina a Trieste ed entrarono a far parte della Divisione Garibaldi “Natisone” – zona Friuli, nella Brigata triestina d’assalto.
Aveva appena vent’anni quando fu ucciso in combattimento dai nazisti a Tolminski Lom, in Slovenia, il 28 novembre del 1944. Quando seppellirono il suo corpo nel cimitero di Kanalski Lom, i partigiani sistemati sulle creste collinari circostanti resero onore al compagno caduto sparando numerosi colpi in aria. Nel 2014 le sue spoglie sono state esumate e si è scoperto che a distanza di settant’anni aveva ancora tra le mani la medaglietta della Madonna che strinse a sè durante gli ultimi attimi di vita. Oggi, Giorgio Sanna riposa nella sua amata terra d’origine, Bitti.
– Sanna Giovanni, figlio di Antonietta Branchi e Pasquale, nacque a Bitti (NU) il 17 agosto 1924.
Grazie alla scheda personale redatta dalla “Commissione regionale triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” scopriamo che dopo l’armistizio, Giovanni Sanna entrò a far parte della Brigata “Cacciatori di Pianura” facente parte della Divisione Garibaldi “Nannetti” e operante nel trevisano. Prima di partecipare al movimento di Liberazione era stato un militare, uno dei tanti giovani sardi che guidati dall’orgolese Luigi Podda decisero di disertare dal Battaglione Angioy posizionato a Opicina. Morì il 29 aprile 1945 (secondo altre fonti il 26 aprile) in una località italiana non meglio precisata, come confermato dalla Banca dati dei Caduti e Dispersi del Ministero della Difesa. Non sono state trovate informazioni sull’episodio che costò la vita al partigiano, sappiamo però che a partire dal 26 aprile, la Brigata “Cacciatori di Pianura” occupò i comuni di Francenigo, Gaiarine, Codognè, Fontanelle, Oderzo, Gorgo, Mansuè, Vazzola, Cimadolmo, S. Polo di Piave, Ormelle, Ponte di Piave favorendo la cacciata definitiva dei nazifascisti prima dell’arrivo degli Alleati. E’ probabilmente in quest’ultima fase della Liberazione che Giovanni Sanna perse la vita.
– Sanna Sebastiano, figlio di Giuliana Bruno e Luigi, nacque a Bitti (NU) il 6 settembre 1923.
Anche Sebastiano fece parte di quel gruppo di militari sardi che, lasciata la divisa all’indomani dell’armistizio, vennero reclutati nel Battaglione Angioy e decisero poi di disertare per entrare nelle formazioni partigiane operanti nel Triveneto. Secondo quanto riportato dalla scheda personale, Sanna aderì alla Divisione Garibaldi “Natisone” – zona Friuli, raggiungendo il grado di Sergente maggiore, Comandante di Squadra. Non si hanno molti dettagli della sua vita partigiana, ciò che è noto è che perse la vita il 10 febbraio 1944 in uno scontro avvenuto nei pressi di Lipa, città della Slovenia. Con lui morì un altro partigiano sardo, Giuseppe Carboni nato a Tonara. Secondo la testimonianza di Luigi Podda, il suo corpo venne tumulato a Ranziano, piccolo centro urbano della Slovenia a pochi km dal confine italiano.
– Serio Giovanni, figlio di Luigi, nacque ad Alghero (SS) il 26 giugno 1894. Conosciuto con il nome di battaglia “Marino”.
Militare dell’esercito italiano, dopo l’armistizio di Cassibile abbandonò la divisa e, secondo quanto riportato nella sua scheda personale, nel maggio del 1944 entrò a far parte della Divisione Garibaldi “Natisone” – zona Friuli -. In una fonte è indicato come comandante della II Zona (Monfalconese). Il suo nominativo compare nell’elenco dei comunisti italiani e sloveni arrestati tra l’agosto e il settembre 1944, rapporto firmato da Giuseppe Gueli, capo dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza a Trieste (Irsrec, fondo Novecento Venezia Giulia). Giovanni Serio fu ucciso il 26 agosto 1944 presso il Polizeihaftlager (campo di detenzione e di polizia) della Risiera di San Sabba.
– Serpi Antonio, figlio di Glicerio, nacque a Pabillonis (SU) il 1° dicembre 1924.
Pochissime le informazioni trovate. La sua scheda personale riporta l’appartenenza al Raggruppamento Divisioni Garibaldine del Friuli (Natisone) a partire dal maggio 1944. Vi rimase fino al 12 aprile 1945, presumibilmente data in cui venne dichiarato disperso. E’ utile ricordare che la Divisione garibaldina contava al suo interno la presenza di un centinaio di combattenti sardi, la gran parte giovani militari sbandati mobilitati dalla Repubblica di Salò che avevano disertato le file del battaglione dislocato a Opicina, vicino Trieste. Anche Serpi, come attestato dalla Banca dati del Ministero della Difesa, prima dell’ingresso nella formazione partigiana era stato un soldato dell’esercito italiano.
– Soddu Gavino, residente a Iglesias [da identificare].
Le uniche informazioni disponibili sono quelle riportate nella scheda redatta dalla “Commissione regionale triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano”. Soddu dal 7 maggio 1944 fece parte delle Brigate Matteotti, Divisione Monte Grappa, formazione legata al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP) e operante alle pendici del monte omonimo. Perse la vita il 23 settembre 1944, probabilmente durante le operazioni di rastrellamento sul Grappa che causarono centinaia di vittime tra partigiani e civili, molte rimaste senza nome. L’Operazione Piave fu ordinata dall’alto comando tedesco in Italia coadiuvato da reparti fascisti nel settembre 1944, per distruggere le formazioni partigiane attive nella zona. Il culmine della strage si raggiunse il 26 settembre a Bassano del Grappa, quando vennero impiccate agli alberi del viale 31 persone, tra cui il sardo Giuseppe Giuliani.
– Villani Salvatore, figlio di Caterina Rusticcia e Tommaso, nacque a Santa Teresa di Gallura (OT) il 6 dicembre 1914. Conosciuto con il nome di battaglia “Cossu”.
L’unica informazione certa riguardante il periodo precedente all’ingresso nelle formazioni partigiane è che Salvatore Villani era un brigadiere dell’Arma dei Carabinieri. Dopo l’armistizio fece parte del “Raggruppamento Divisione Osoppo Friuli” a partire dal luglio del 1944 e fino al 10 dicembre dello stesso anno, data della sua morte.
Villani, insieme ad altri 9 partigiani, fu vittima di un rastrellamento effettuato da tedeschi appoggiati da reparti cosacchi e della Decima Mas, nel settore tra l’Arzino e il Meduna, nella provincia di Pordenone. Durante l’offensiva nazifascista, un gruppo di ribelli riuscì ad attaccare di sorpresa i marò del Battaglione Valanga, provocando un morto e un ferito. A seguito di questo attacco, nella notte del 9 dicembre i marò circondarono la frazione di Tramonti di Sotto, nel paese di Palcoda, dove si erano rifugiati i partigiani, e nel durissimo scontro a fuoco ne uccisero diversi; altri 21 vennero catturati e rinchiusi nei locali della macelleria cittadina. Dopo essere stati interrogati uno alla volta nel palazzo del municipio di piazza Santa Croce, il comandante del “Valanga”, capitano Morelli, ordinò la fucilazione di 10 di loro. Il giorno dopo, il 10 dicembre (secondo altre fonti il 13), nel tardo pomeriggio avvenne l’esecuzione nei pressi del cimitero di Tramonti di Sotto: un primo plotone, comandato da Rinaldo Barbesino, fucilò i primi cinque mentre un secondo, alla guida del tenente Ezio Busca, si occupò dei restanti. Oltre al sardo Salvatore Villani furono giustiziati altri due partigiani della Brigata Osoppo “Friuli”, Cosimo Moccia e Ulderico Rondini, e sette della Brigata “Tagliamento-Garibaldi Sud Arzino”, Adalgerio Ceccone, Ottavio Cominotto, Gino De Filippo, Vittorio Flamini, Gino Minin, Osvaldo Rigo e Carlo Sclavi. Una lapide in marmo posta nel cimitero di Tramonti di Sotto ricorda il sacrificio dei dieci combattenti.
– Violini Maurizio, figlio di Maria e di padre ignoto, nacque a Sassari il 4 settembre 1910 (data ricavata dall’atto di nascita del comune sardo). Residente a Valmareno di Follina, provincia di Treviso.
Carabiniere, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 lasciò la divisa ed entrò a far parte della Brigata “Mazzini” – Divisione “Nannetti” il 20 maggio 1944, ottenendo la promozione di comandante di nucleo partigiano già nel luglio dello stesso anno. Maurizio Violini fu catturato a causa di una delazione e fu giustiziato assieme ad altri 5 partigiani, suoi compagni di brigata: Antonio Bortolin, Salvatore Pontieri, Giovanni Possamai, Leone Sasso e Marino Zanella, comandante della “Mazzini”.
Il 24 gennaio 1945, due Battaglioni della Decima Mas, “Nuotatori Paracadutisti” e “Sagittario”, organizzarono un rastrellamento contro la ricostituita “Mazzini” nel territorio della provincia di Treviso. I fanti di marina “Sagittario” si avvalsero della collaborazione di una ragazza soprannominata “L’Americana”, fermata durante il rastrellamento, che comunicò loro la presenza di armamenti nascosti nelle baite della montagna. Durante le ricerche, i militari non trovarono armi ma scoprirono all’interno di una baracca a Premaor di Miane 4 partigiani (Violini, Bortolin, Pontieri, Possamai) e una ragazza, la staffetta partigiana Irma Possamai. Rientrando a Pieve di Soligo, lungo la strada tra Miane e Follina, i marò del “Sagittario” incrociarono due uomini (Sasso e Zanella) che procedevano a piedi con le biciclette alla mano; perquisiti e trovati in possesso di armi furono arrestati e uniti al gruppo dei prigionieri. Il 25 gennaio, gli ufficiali della Decima di stanza a Pieve di Soligo, dopo un processo sommario, condannarono a morte i 6 partigiani e rilasciarono le ragazze (L’Americana verrà poi giustiziata dai partigiani perchè considerata una spia). Il giorno dopo, il 26 gennaio alle ore 11, i prigionieri confortati da monsignor Domenico Martini, furono fucilati tre alla volta da un plotone di esecuzione, sul muro esterno del cimitero di Pieve di Soligo. La Decima non riconobbe subito Marino Zanella, che ricopriva l’importantissima carica di comandante della Brigata ed era un ricercato politico fin dagli anni ’30. Quando i suoi documenti furono esaminati in modo approfondito, era ormai troppo tardi e i marò non poterono più estorcere informazioni all’imputato. Monsignor Martini si oppose alla decisione del Comando di Battaglione “Sagittario” di inumare i partigiani in una fossa comune per far passare sotto silenzio la vicenda, così avvisò i familiari delle vittime che, i giorni seguenti, trasferirono e seppellirono le salme nelle rispettive parrocchie. Maurizio Violini fu insignito della Medaglia di bronzo con la seguente motivazione: “Fervente patriota, lasciava la famiglia per entrare nelle file partigiane, prodigandosi con tutte le sue energie per la causa della libertà. Catturato, unitamente al proprio comandante, in una imboscata veniva sottoposto inutilmente a torture per estorcergli informazioni. Condannato alla fucilazione, cadeva eroicamente per la libertà della Patria. – Pieve di Soligo (Treviso), 26 gennaio 1945“. Dopo la Liberazione, in ricordo dei sei partigiani furono apposti sul muro di cinta del cimitero di Pieve di Soligo una lapide e una scultura bronzea.
– Zidda Michele, figlio di Giuseppe, nacque a Orune (NU) il 25 agosto 1919. Conosciuto con il nome di battaglia “Macario”.
Ancora bambino, si trasferì con il padre e i fratelli a Nuoro, dove aiutò la famiglia lavorando nel panificio di piazza Italia. Con lo scoppio del conflitto, rispose alla chiamata alle armi e dopo aver lasciato la divisa da soldato entrò a far parte delle formazioni partigiane nel settembre 1943, operando nella Divisione Garibaldi “Natisone”. Perse la vita il 23 marzo 1945 in un furioso combattimento sul monte Blegos, in Slovenia. Non sarebbe toccato a lui, combattere quel giorno, ma Michele Zidda si era offerto per lasciare che un commilitone, con moglie e figli, potesse avere qualche chance in più di tornare a casa. Le sue spoglie, oggi, riposano in un sacrario vicino a Skofja.
Michele Zidda fu insignito della Medaglia d’argento alla memoria con la seguente motivazione: “Sorpreso in territorio straniero dall’armistizio, non esitava a entrare subito nel movimento della Resistenza, partecipando a numerose azioni sempre distinguendosi per coraggio, capacità e spirito di dedizione. Portamunizioni di arma automatica posta in posizione avanzata e serrata da incalzante avversario, riforniva audacemente con calma, serena regolarità la sua arma, percorrendo ripetutamente la zona battuta da incessante fuoco nemico. Colpito da raffica micidiale, cadeva generosamente per la libertà della patria. – Sebrelie (Gorensko – Jugoslavia), 23 marzo 1945“.
– Zucca Antonio, figlio di Giovanna Pinna e Sebastiano Giovanni, nacque a Tonara (NU) il 2 maggio 1920.
Soldato del 23° Reggimento Artiglieria (Divisione di fanteria) durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio di Cassibile abbandonò la divisa e nell’ottobre 1943 confluì nella formazione partigiana che nei mesi successivi avrebbe preso il nome di Brigata “Martiri di Mirano”, alle dipendenze della Brigata “Garibaldi Padova”. Antonio Zucca fu promosso nell’aprile 1944 Comandante di nucleo partigiano, divenne Aiutante Maggiore Battaglione a maggio e Comandante Stato Maggiore di Brigata il 1° ottobre, appena dieci giorni prima di essere ucciso.
La sua morte è da ricollegare alla “Battaglia del Parauro”, nota anche come “Battaglia di Zeminiana”, avvenuta nelle campagne fra Noale e Santa Maria di Sala (in provincia di Venezia) e Massanzago (in provincia di Padova). L’11 ottobre 1944 la Brigata nera “Luigi Begon” di Padova iniziò un’operazione di rastrellamento in tutta la zona che culminò con lo scontro a fuoco con i partigiani locali guidati dal Comandante Ballan. I 4 combattenti disposti nella linea di difesa più avanzata vennero fermati dalle forze fasciste: Silvio De Cesaro, probabilmente perchè privo di munizioni, si arrese al nemico ma venne freddato con un colpo alla testa, Amleto Bordoni e Cosimo Aiello dopo la cattura vennero immediatamente fucilati. Ancora più tragica fu la fine del sardo Antonio Zucca che nello scontro a fuoco rimase ferito a una gamba. Sdraiato a terra, impossibilitato a muoversi, fu raggiunto dal comandante delle Brigate Nere che lo colpì violentemente alla testa con il calcio del moschetto, fracassandogli il cranio. Qualche ora dopo, constatato che il ferito era ancora in vita, venne finito con una pugnalata al petto. Oggi il sacrificio dei quattro partigiani è ricordato da una lapide a Zeminiana (frazione di Massanzago) e da un monumento in via del Parauro, a Noale.
Fonti principali:
– “Storia della resistenza veronese”, di Maurizio Zangarini; – Schede personali: Commissione regionale triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano; – Archivio tedesco: Arolsen Archives; – “L’antifascismo in Sardegna”, a cura di Brigaglia, Manconi, Mattone e Melis; – “Antifascisti e partigiani sardi”, di Tonino Mulas; – “Quelli della Montagna: storia del Battaglione Triestino d’Assalto”, di Giacuzzo e Scotti; – “Itinerario di lotta, cronaca della Brigata d’assalto Garibaldi – Trieste” di Riccardo Giacuzzo e Mario Abram; – “Verona la guerra e la ricostruzione”, a cura di Maristella Vecchiato; – Raccontare Porzûs: storiografia di una strage ambigua, dal sito “Treccani“; – “Porzus: difficile e doloroso parlarne con obbiettività”, di Wladimiro Settimelli, in Patria Indipendente, 27 luglio 2008; – L’eccidio di Porzûs, dal sito ANPI; – 70 anni fa: strage di Porzûs (UD), da sito “Ultime lettere“; – “Dopo settant’anni su pitzinnu Varadda ritorna nella sua Bitti”, dal sito La Nuova Sardegna; – “Servo pastore e partigiano torna a casa dalla Slovenia”, di Natalino Piras, in Patria Indipendente, giugno 2014; – Fascicolo 435 Brigata “Cacciatori di Pianura”; – Diari storici dei Reparti partigiani della Provincia di Treviso, Archivio dell’Istresco; – Cimitero Tramonti Di Sotto, dal sito: “Stragi nazifasciste“; – I dieci fucilati di Tramonti di Sotto, dal sito: “Friuli Occidentale, la storia, le storie“; – “Il comunismo nell’area Alpe-Adria. Protagonisti, miti, demifisticazioni”. A cura di Patrick Karlsen e Luca G. Manenti. Rivista di storia contemporanea “QualeStoria”, Nr. 1, Giugno 2019. – “Storie di guerra: Valdobbiadene e dintorni dal gennaio 1944 all’eccidio del maggio 1945”, di Luca Nardi; – Episodio di Pieve di Soligo, dal sito: “Stragi nazifasciste“; – Il partigiano Zidda torna a Nugoronobu , dal sito “La Nuova Sardegna“; – In ricordo di Antonio Zucca, dal sito “Tottus in pari“; – Noale, 11.10.1944, dal sito “Stragi nazifasciste“.
Si ricorda che nel caso il lettore fosse a conoscenza di ulteriori dettagli, nei commenti alla pagina potrà integrare o chiedere di modificare eventuali inesattezze che, vista la natura della ricerca, sicuramente non mancheranno. Sarebbe molto interessante poter ampliare almeno le biografie più scarne, possibilmente con l’aggiunta delle foto mancanti, in modo da ricordare le gesta e ridare un volto a questi uomini troppo spesso dimenticati.
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Cognomi da G alla P
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– Gavini Gavino, figlio di Rita Campus e Lorenzo (falegname), nacque a Sassari il 5 dicembre 1904.
A 19 anni partecipò come volontario alla Guerra di Libia, venendo anche insignito della Croce d’argento. Dopo qualche anno passato in Cirenaica nel servizio di artiglieria, venne trasferito in vari comandi della Penisola fino ad arrivare a Verona, suo ultimo luogo di residenza. Nella città veneta venne nominato consegnatario del deposito di munizioni ed esplosivi di forte Castelletto, poi, promosso maresciallo, di forte Chievo a partire dal 1938. Ed è proprio a forte Chievo che iniziò a dare il suo contributo alla Resistenza, consegnando bombe a mano e armamenti ai partigiani.
In base a ciò che è riportato nella sua scheda personale, a partire dal giugno del 1944 entrò a far parte della “Missione Rye”, un organismo della Resistenza veronese alle dipendenze dello Stato maggiore del governo italiano. La Missione, nelle sue fasi iniziali, svolgeva compiti informativi attraverso il controllo del traffico della stazione ferroviaria di Porta Nuova. Successivamente ebbe il compito di riorganizzare le bande partigiane che si erano formate in modo spontaneo dopo l’armistizio di Cassibile, ponendole sotto il controllo del Governo Badoglio al fine di creare una sorta di CLN alternativo di stampo cattolico. Gavini venne arrestato per delazione il 20 novembre 1944 e detenuto prima nella caserma delle Camicie Nere, nella sede dell’Ufficio Politico Investigativo, e poi presso il Palazzo INA, sede del Comando Generale SS e della Polizia di Sicurezza. Da qui venne trasferito momentaneamente nel campo di concentramento e di transito di Bolzano dove assieme ad altri prigionieri diede prova, ancora una volta, della sua ostilità verso i nazisti sabotando biciclette e pianoforti in partenza per la Germania.
Da Bolzano, venne deportato nel campo di concentramento di Mauthausen con il “trasporto n. 111”, convoglio che partì il 14 dicembre 1944 e arrivò a destinazione 5 giorni dopo con 336 prigionieri. A Mauthausen venne identificato come deportato per motivi precauzionali e gli venne assegnata la matricola n. 113987. Come mestiere dichiarò quello di aggiustatore meccanico. Il 29 dicembre fu trasferito a Gusen (campo satellite di Mauthausen), dove morirà l’11 aprile 1945. Venne sepolto nella stessa località, in una fossa comune. Una lapide lo ricorda all’Arsenale di Verona, a poca distanza da quella di un altro sardo caro alla Resistenza veronese, Mario Ardu.
– Giuliani Giuseppe, figlio di Maria Domenica Mannu e Leonardo, nacque a Cheremule (SS) il 29 settembre 1915.
Carabiniere, fece parte della Brigata “Italia Libera-Campo Croce” fino al 26 settembre 1944, data della sua morte a seguito del massacro avvenuto sul monte Grappa. Secondo gli storici, la catastrofe del Grappa con le sue centinaia di vittime fu il più sanguinoso e drammatico episodio della Resistenza veneta. Agli inizi del settembre 1944, sul massiccio erano presenti quattro formazioni partigiane: la brigata “Matteotti”, la più organizzata, formata da 500 uomini guidati dal capitano Angelo Pasini, la brigata “Italia Libera Archeson”, composta da 250 uomini diretti dal maggiore Edoardo Pierotti, l'”Italia Libera Campo Croce”, 300 uomini guidati da Lodovico Todesco e dal capitano Emilio Crestani, il battaglione garibaldino “Montegrappa” (inquadrato nella brigata “Gramsci”), 150 uomini comandati da ufficiali di fede comunista. Nel comando di Cima Grappa, presso il rifugio Bassano, era presente anche un reparto di carabinieri agli ordini del tenente Luigi Giarnieri, che verrà a sua volta catturato, torturato e impiccato. Contro queste formazioni, che contavano complessivamente circa 1200 uomini poco addestrati militarmente e dotati solo di armi leggere, si scagliò la tremenda offensiva dei nazifascisti. Il rastrellamento, denominato “operazione Piave”, fu voluto dall’alto comando tedesco in Italia con la collaborazione di un contingente di volontari ucraini, del reggimento “Bozen” della polizia trentina, e della “M. Tagliamento”. In appoggio, soprattutto per allestire i numerosi posti di blocco e impedire la fuga dei partigiani, intervennero le Brigate Nere di Vicenza e Treviso e alcune compagnie della Guardia nazionale repubblicana dislocate a Crespano e a Cavaso. L’attacco iniziò alle 6.30 del 20 settembre. Un esercito composto da 10.000 uomini agli ordini del colonnello Zimmermann, circondato tutto il massiccio, attuò una manovra a tenaglia che intrappolò le varie brigate. Dopo due giorni di combattimenti e pochi altri di fuga, almeno 200/250 uomini persero la vita negli scontri, dei quali 171 fucilati, bruciati o impiccati, quasi tutti dopo processi sommari. Tra gli arrestati, molti vennero deportati in Germania e non fecero più ritorno.
Particolarmente crudele la sorte riservata a 31 ragazzi per mano del vice brigadiere delle SS Karl Franz Taush, di stanza a Bassano del Grappa. Il 26 settembre i partigiani vennero caricati su un camion, probabilmente dopo essere stati storditi, per essere impiccati agli alberi dei viali di ingresso della città di Bassano. All’ordine di Taush, i giovani fascisti appartenenti alle “Fiamme Bianche” della Guardia nazionale repubblicana accostarono il camion sotto ogni pianta, afferrarono un laccio già posizionato e, sistemate le vittime ne provocarono la morte per impiccagione. I poveri resti, a cui venne appeso un cartello con la scritta “bandito”, furono lasciati esposti allo sguardo della folla per 20 ore, anche se l’ordine iniziale prevedeva 4 giorni. Tra questi partigiani vi era anche il sardo Giuseppe Giuliani. Sul lato destro del viale cittadino, sull’albero dove trovò la morte, oggi una lapide in metallo ricorda il suo sacrificio.
– Manca Gesuino, figlio di Giuseppina Lilian e Felice, nacque a Terralba (OR) il 3 marzo 1917.
Sposato, residente a Cavasso Nuovo (PN) da pochi anni, dopo l’armistizio di Cassibile lasciò la divisa di Bersagliere dell’esercito ed entrò nel movimento di Resistenza divenendo commissario di compagnia del Battaglione Val Meduna, inquadrato nella 4^ Brigata della 1^ Divisione Osoppo-Friuli. Il suo sacrificio è da ricollegare agli eventi della Repubblica libera della Carnia, formatasi tra l’estate e l’autunno del 1944 quando il Friuli era stato inserito nella “Operation Zone in Adriatisches Küstenland”, territorio di fatto annesso al 3° Reich. Contro questa Repubblica partigiana, la più estesa d’Italia e posta a ridosso della Germania, 40000 uomini tra tedeschi, fascisti, cosacchi e caucasici scatenarono una violenta controffensiva che causò 900 vittime e che ebbe il suo culmine nella battaglia del monte Rest. Protagonisti dei combattimenti contro i nazifascisti furono due Battaglioni della Osoppo-Friuli, il Monte Canin e il Val Meduna, di cui faceva parte Manca.
Il 7 febbraio 1945, i “Diavoli Rossi” (un gruppo di 22 uomini della “Brigata Montina” appartenente alla Divisione Garibaldi-Friuli) assaltarono il carcere di Via Spalato a Udine, dove erano stati imprigionati i partigiani arrestati durante gli scontri per la difesa della Repubblica. Grazie a questa azione riuscirono a fuggire 73 detenuti tra partigiani e prigionieri politici, 6 dei quali già condannati a morte. L’11 febbraio, appena quattro giorni dopo, scattò la durissima rappresaglia nazifascista. Lungo il muro del cimitero di Udine, vennero fucilati 23 partigiani prelevati da quello stesso carcere, condannati dopo un processo sommario dal Tribunale Speciale per la sicurezza pubblica nella zona d’operazioni del litorale adriatico. Tra le vittime vi era Gesuino Manca, conosciuto ai compagni con il nome di battaglia “Figaro”. Fu rastrellato dai tedeschi nel gennaio 1945, mentre si trovava nei pressi di Cavasso Nuovo. Il giorno prima dell’esecuzione scrisse una lettera d’addio alla moglie: “Mia carissima moglie, Oggi sono stato condannato a morte. Io del male non ne ho fatto a nessuno; se qualcuno crede ch’io gliene abbia fatto, mi perdoni. Io ho sempre sperato e pregato il Signore, e anche tu pregalo per me. Prega Dio che la nostra bambina cresca buona e sana e che ricordi sempre il suo papà che le voleva tanto bene come alla sua mamma, alla nonna e a tutti familiari. Fides mia carissima, quando ti sarà possibile, farai sapere ai miei cari il mio destino. Io muoio giovane, ma nella serenità del Signore, rassegnato, contento e sereno. -Tieni conto di questa mia lettera fino all’ultimo respiro della tua vita-. Quando ti sarà possibile, portami un mazzo di fiori ed io ti sarò presente e risentirò la tua cara voce. Mando, in questo momento estremo particolarmente a te e alla piccola una moltitudine di baci, grandi come la terra e il mare. Addio Fides! Fatti coraggio. Tuo per sempre. P.S. Tutti i compagni di Cavasso seguono la stessa mia sorte“.
– Marcia Enrico, figlio di Efisio, nacque a Maracalagonis (CA) l’8 novembre 1917.
Appartenente all’Arma dei Carabinieri, dopo l’armistizio di Cassibile diede il suo contributo alla Resistenza operando, dal maggio del 1944, nella Brigata Cairoli – Divisione Nannetti. Non si hanno molti dettagli sulla sua vita e sul ruolo che ebbe nella formazione partigiana. Ciò che è noto è che fu una delle vittime della rappresaglia avvenuta il 14 febbraio 1945 a Silvella, frazione del comune di Cordignano in provincia di Treviso.
Pochi giorni prima, il 10 febbraio, il sergente Guido Marini del Battaglione “NP” della Decima Divisione (X MAS) si era recato a Cordignano dove risiedeva la sua famiglia, e di lui si era persa ogni traccia. Appresa la notizia, Nino Buttazzoni, comandante del Battaglione “NP” di stanza a Valdobbiadene e cugino del sergente, si recò a Cordignano con tre Compagnie di fanti di marina, minacciando l’uccisione di 9 ostaggi (catturati i giorni precedenti dalla Decima MAS) se non avesse avuto informazioni sullo scomparso. Prima della scadenza dell’ultimatum, lo stesso Buttazzoni fece fucilare 6 degli ostaggi detenuti, intimando di continuare le esecuzioni per la mancanza di collaborazione. Nel frattempo, ordinò alla Compagnia Mortai del suo Battaglione di bombardare i paesi di Sarmede, Montaner e lo stesso Cordignano che però non subirono danni per la decisione del tenente Fraschini di indirizzare i colpi in zone non abitate. Le esecuzioni furono fermate solo grazie all’intervento del vescovo di Vittorio Veneto, Giuseppe Zaffonato, che fece pressione sul prefetto Bellini e sul Comando della Guardia Nazionale Repubblicana affinchè bloccassero le violenze perpetrate dalla Decima Mas.
A Silvella, sul muro della casa dove avvenne la fucilazione, è presente una targa che ricorda il sacrificio dei 6 caduti. Tra i nomi vi è quello del giovane carabiniere sardo Enrico Marcia, deceduto a soli 27 anni.
– Marras Francesco, figlio di Rosalia Carta e Giuseppe, nacque a Mores (SS) il 5 maggio 1920.
Pochissime le informazioni trovate. La scheda personale redatta dalla “Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” attesta che Marras fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” a partire dall’aprile del 1944. Morì l’8 febbraio 1945 a San Tommaso, frazione di Aidussina oggi in territorio sloveno, e lì fu tumulato. L’8 febbraio, la “Brigata Triestina” di cui faceva parte Marras venne coinvolta nei combattimenti contro i tedeschi nella zona del monte Caven e Predmeja, in Aidussina. La Brigata subì delle perdite e con molta probabilità fu in questa occasione che Marras perse la vita. Altri partigiani vennero fatti prigionieri e furono rinchiusi nel carcere di Gorizia e nella Risiera di San Sabba.
– Meloni Bartolomeo Francesco, figlio di Anna Luigia Porcu e Francesco Meloni Serra (impiegato), nacque a Cagliari il 10 agosto 1900. Originario di una famiglia benestante di Santu Lussurgiu, nobile per meriti agrari, nel 1917 si iscrisse al corso di Ingegneria all’Università di Cagliari, per poi trasferirsi due anni dopo al Politecnico di Torino dove conseguì la laurea. Lasciata Torino dopo aver terminato gli studi, prese residenza a Venezia, città in cui divenne ispettore generale delle Ferrovie dello Stato. Nel 1936, come tutti i funzionari statali, fu costretto a iscriversi al Partito fascista, senza mai partecipare alla vita del regime. Dopo l’armistizio di Cassibile, fu attratto dalle idee del Partito d’Azione anche se la sua non fu un’adesione repentina, a causa delle incertezze dovute al problema di conciliare le idee laiche e socialiste del movimento con la sua fede cristiana. Grazie all’attività politica nel Pd’A, entrò in contatto con Silvio Trentin, deputato antifascista per lungo tempo esule in Francia. Trentin, dopo essere ritornato in Italia, in una lettera a Emilio Lussu del 23 ottobre ’43 scriveva a proposito di Meloni: “Da lunedì mi trovo praticamente investito della Resistenza in tutto il Veneto. Credo che potremmo metter in piedi qualcosa di grande e di bello. Ho per luogotenente un tuo concittadino MAGNIFICO”, dove magnifico è scritto in stampatello a sottolineare la stima verso l’ingegnere sardo.
Armando Gavagnin, fra i fondatori del Partito d’Azione e sindaco di Venezia dopo la Liberazione, nel suo libro di memorie “Vent’anni di resistenza al fascismo” ricorda la figura di Meloni. Mosso da una voglia di giustizia, l’ingegnere si adoperò per creare un’organizzazione ferroviaria antifascista escludendo chiunque fosse stato coinvolto con il regime. “In quella lista, — ricorda Gavagnin —, che io stesso presentai ai dirigenti ferroviari il suo nome non c’era e invano feci insistenza perché figurasse. Egli non ne volle sapere. Era stato iscritto al partito fascista e questo stabiliva una incompatibilità, che secondo lui non poteva essere superata. Invano feci distinzioni, parlai di necessità e di esperienza. Fu irremovibile e volle che fra i nomi indicati figurassero in prima linea quelli di persone mai iscritte al partito“. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, Meloni decise di passare all’azione diretta. Insieme a un gruppo di ferrovieri e volontari, contribuì alla fondazione di due Brigate, la 10^ e l’11^ Matteotti, che agirono in tutto il Veneto. In quei durissimi mesi, i tedeschi cercavano di convogliare i prigionieri italiani verso la Germania: erano soprattutto soldati e ufficiali che dovevano diventare forza lavoro al servizio dei nazisti, mentre per le formazioni partigiane era importante che rimanessero nel Paese per dare un contributo alla guerra di Liberazione. Meloni, grazie al suo ruolo e alle sue conoscenze nella rete ferroviaria, riuscì a dare un prezioso aiuto alla Resistenza veneta: attivissimo, con i suoi compagni portò avanti continui sabotaggi ai convogli ferroviari carichi di prigionieri italiani, deviò treni destinati ai campi di concentramento del Nord Europa verso il Friuli e la Jugoslavia, contribuì a salvare ebrei del ghetto di Venezia, procurò armi, munizioni, equipaggiamenti ai partigiani. Per fermare o rallentare i treni, i ferrovieri alzavano le traversine, introducevano nei convogli alimenti e, spesso, anche “piedi di porco” per permettere ai prigionieri di sollevare le assi dei vagoni e fuggire durante le soste. Ben presto si diffuse la leggenda che i treni che passavano da Venezia arrivavano in Germania vuoti. Non è chiaro il numero di persone salvate in questo modo dalle deportazioni, ma ciò che è certo è che il ruolo svolto da Meloni e dai suoi ferrovieri contribuì in maniera determinante al rafforzamento del movimento partigiano. I continui sabotaggi sulla linea gestita da Meloni e il suo attivismo crescente, lo esposero ai sospetti delle SS che lo arrestarono il 4 novembre 1943 nel suo ufficio mentre i fascisti perquisivano e saccheggiavano la sua casa. Fu prima condotto nel carcere fascista di Santa Maria Maggiore, dove restò due mesi e mezzo, poi trasferito a Verona e infine nel campo di concentramento di Dachau dove venne registrato con il numero di matricola 64720. Toccante fu la testimonianza di don Giovanni Fortin, suo compagno di prigionia: “Nella disperazione, nell’abbattimento, nella fame. Chi era la forza morale della piccola schiera? Era l’ing. Meloni. Il suo corpo sembrava di giorno in giorno assottigliarsi, ma il suo spirito ingigantiva maggiormente. I giorni di prigionia veneziana avevano fiaccato il suo corpo, ma egli era ancora sostenuto, pur essendo tanto gracile; era il morale che rinforzava il suo corpo, era una visione lontana di Bene, che egli pensava di dover compiere un giorno tornato in Patria”.
Da Dachau, il 20 marzo 1944 venne spostato nel campo di Flossenbürg dove arrivò 5 giorni dopo. Registrato con il numero di matricola 7441, fu subito avviato ai lavori forzati. Una sera, ormai fortemente indebolito e denutrito, cadde in un sonno comatoso e non riuscì a svegliarsi per l’appello; il sorvegliante lo trovò riverso sul misero giaciglio e lo massacrò a frustate con il nerbo di bue. Trasferito in pessime condizioni di nuovo a Dachau il 4 aprile 1944, morì nel campo il 10 luglio 1944 alle ore 6 e 15 minuti. A Bartolomeo Meloni è stata concessa la medaglia d’argento alla memoria con la seguente motivazione: “Ispettore principale delle Ferrovie dello Stato, aderiva fin dall’inizio al movimento clandestino di liberazione mettendo al servizio della causa il suo ingegno, la sua capacità tecnica e professionale. Raccoglieva armi, munizioni e materiale per distribuirlo alle formazioni partigiane combattenti, sabotava in modo irreparabile locomotive, carri ed impianti ferroviari, deviava l’istradamento di interi convogli avviandoli al confine jugoslavo per dare modo ai prigionieri alleati di unirsi ai partigiani slavi. Arrestato a Venezia per la sua attività patriottica che non conosceva tregua nè pericoli, sopportava interrogatori, tormenti e sevizie senza nulla svelare, né valse la lusinga di aver salva la vita a smuoverlo dal fiero silenzio. Deportato a Dachau, non reggeva alle sofferenze e alla fame e, consunto dal fiero morbo contratto, moriva da eroe purissimo offrendo alla Patria l’olocausto della vita. Il suo cadavere non ebbe la pace della sepoltura e le sue ceneri, dopo la cremazione, furono disperse al vento. Venezia, 8 settembre 1944 – Dachau, 10 luglio 1944“.
– Meloni Pietro, figlio di Giuseppina Perra e Giovanni (bracciante), nacque a Sestu (CA) il 23 novembre 1899. Di famiglia poverissima, già a 7 anni fu avviato al lavoro nei campi e non potè frequentare le scuole ma, nonostante le difficoltà, imparò a leggere e scrivere da autodidatta. Raggiunti i 16 anni, riuscì ad arruolarsi nella Guardia di Finanza e vi rimase fino all’età di 24 anni quando, ferito in servizio, fu congedato con una piccola pensione insufficiente per vivere. Antifascista convinto, Meloni decise di emigrare in Francia e qui, tra un lavoro e un altro, unì a un’intensa attività politica lo studio dei testi classici del movimento operaio. In Francia conobbe anche la sua futura moglie, Rosa Tosoni, nata a Sona (VR) nel maggio 1901; dopo il matrimonio si stabilirono a Lione e parteciparono alle attività del Partito comunista locale. Meloni divenne segretario della sezione comunista di Modane, piccolo centro al confine con l’Italia e, con l’occupazione tedesca, fu attivo insieme alla moglie nella Resistenza francese. Nel 1941 ritornarono in Italia, a Verona. Lui trovò un impiego alla Mondadori e diventò membro del Comitato federale clandestino del PCI, Rosa fu assunta nell’Arsenale militare. Dopo l’armistizio di Cassibile i due coniugi parteciparono attivamente alla lotta di Liberazione nella provincia di Verona. Meloni fece parte del 2° CLN veronese e divenne ben presto uno dei comandanti partigiani più importanti del territorio, conosciuto dai compagni con il nome di “Misero”.
Secondo quanto riportato nella scheda personale, Meloni entrò a far parte delle formazioni partigiane locali già nell’ottobre del 1943. Traditi da un conoscente che organizzò un finto incontro nei pressi della chiesa parrocchiale di San Massimo, frazione di Verona, i due coniugi vennero catturati dalle SS il 12 ottobre 1944. Rinchiusi nel carcere ricavato nel Palazzo INA (sede del Comando Generale SS e Polizia di Sicurezza), vi uscirono, segnati dalle torture, per essere trasferiti nel Campo di concentramento e transito di Bolzano. Il 20 novembre 1944, Meloni venne deportato nel Campo di concentramento di Mauthausen con il “trasporto n. 104” assieme ad altri 278 prigionieri. All’arrivo venne identificato come deportato per motivi precauzionali e gli venne assegnata la matricola n. 110326. Il 6 dicembre fu trasferito a Gusen (campo satellite di Mauthausen), dove morì il 13 febbraio 1945; fu sepolto in una fossa comune. Anche nel campo organizzò con i reclusi quella che è stata definita come la “Resistenza del filo spinato”. Rosa, detenuta nel Campo di Bolzano, riuscirà a sopravvivere alla guerra e anche da pensionata continuerà a essere attiva nelle organizzazioni democratiche veronesi.
Dei dodici componenti del 2° CLN veronese, nove furono arrestati tra il luglio e il dicembre 1944 e internati nei campi di concentramento in Germania. Tornarono solo in tre: Paolo Rossi, Arturo Zenorini e il già menzionato Vittore Bocchetta (vedi scheda del partigiano Ardu). Nel 1955, nel primo decennale della Resistenza, il Comune di Verona ha conferito alla memoria di Pietro Meloni una medaglia d’oro per il contributo dato alla lotta partigiana. Il 25 aprile 1989 fu collocata in Palazzo Barbieri una lapide a ricordo del suo sacrificio e di quello dei compagni del CLN. Fu inoltre insignito della medaglia di Bronzo al Valor militare con la seguente motivazione: “Membro del C.L.N. provinciale nel veronese, animatore e organizzatore delle forze partigiane locali. Arrestato con altri compagni del suo C.L.N., affrontava con dignitosa fierezza – in un irriducibile generoso silenzio su uomini e fatti della Resistenza – lo strazio di lunga tortura, premessa di una deportazione conclusa con il suo spegnersi in un lager nazista. Verona, 1° ottobre 1943 – Gusen, 13 febbraio 1945“.
– Merlo Giovanni(o Gianni), figlio di Maria Benevento e Angelo, nacque a Sassari il 18 febbraio 1922.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, anche Merlo, soldato dell’esercito, abbandonò la divisa militare e prese parte alla guerra di Liberazione. Come indicato nella scheda personale redatta dalla “Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano”, Merlo entrò nella “Brigata Avesani” (zona Verona) il 1° marzo 1944 e vi rimase fino al 26 aprile 1945, data della sua morte. Per la mancanza di informazioni non è stato possibile tracciare un quadro più dettagliato della sua storia. Sappiamo però che a partire dal 25 aprile 1945, nel territorio veronese ci fu una grande insurrezione guidata dalle formazioni partigiane locali per mettere in fuga i nazifascisti prima dell’arrivo degli Alleati. La guerriglia in alcune zone durò per due giorni consecutivi, lasciando sul campo decine di vittime tra i partigiani. Con ogni probabilità, Merlo cadde a seguito di questi violenti scontri, all’alba della Liberazione.
– Mesina Egidio, figlio di Giovanni, nacque a Orgosolo il 9 gennaio 1923. Conosciuto con il nome di battaglia “Murrette”.
Pochissime le informazioni reperite. Grazie alla sua scheda personale, sappiamo che anch’egli come tanti suoi corregionali fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” -Brigata Triestina-. Militare sbandato dopo l’armistizio di Cassibile, entrò nella formazione il 7 giugno 1944 e vi rimase fino al 20 marzo 1945, data del decesso. Faceva parte della squadra dei corrieri e, per il coraggio dimostrato in alcune azioni, nel dicembre del 1944 venne premiato dal comando con la somma di 100 lire. Morì a Gradiscutta, all’epoca in provincia di Gorizia, dove fu tumulato. Analizzando le schede degli altri combattenti sardi si è osservato che con molta probabilità perse la vita nelle stesse circostanze del partigiano Ferruccio Casu, visto che data e luogo di morte coincidono. Il suo sacrificio è ricordato in un murale a Orgosolo, suo paese natale che gli ha dedicato anche una via.
– Micheli Alessandro, nato in Sardegna [da identificare].
Il suo sacrificio venne ricordato dall’orgolese Luigi Podda, compagno di lotta nella “Divisione Garibaldi Natisone”. Micheli, appartenente alla “Brigata Triestina” dall’aprile 1944, perse la vita il 19 febbraio 1945 a Ranziano, oggi piccolo centro della Slovenia, dove venne tumulato. Purtroppo al momento non sono state trovate altre informazioni.
– Micheli Giuseppe, figlio di Maria Mattis e Biagio, nacque a Porto Torres nel 1918.
Gli unici dati sul combattente sono quelli ricavati dalla sua scheda personale. Sappiamo che divenne partigiano combattente nel settembre 1943, quando entrò nella “Divisione Garibaldi Natisone” operante nel territorio del Friuli Venezia Giulia e successivamente in terra jugoslava. Perse la vita il 19 aprile 1944.
– Muolo (o Muollo) Pasquale, figlio di Maria Grazia De Angelis e Raffaele, nacque a Oristano il 10 febbraio 1923. Residente a Chingano San Domenico (AV).
Grazie alla scheda personale redatta dalla “Commissione regionale triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” scopriamo che nel gennaio del 1944, Muolo entrò a far parte della “3^ Brigata Damiano Chiesa”, formazione partigiana operante nel padovano, di carattere apartitico e autonomo. Anche se non possiamo ricostruire nel dettaglio la sua storia, è certo che Muolo fu una delle vittime della rappresaglia per la morte di Bartolomeo Fronteddu, della quale furono falsamente accusati dieci partigiani. Il decesso del colonnello sardo, avvenuto il 16 agosto 1944, in realtà nulla aveva a che fare con la lotta di Liberazione, essendo questo un crimine maturato all’interno dell’ambiente fascista, probabilmente a causa di gelosie per una donna contesa. Sta di fatto che all’omicidio fu attribuita una motivazione politica e i fascisti approfittarono della situazione per giustiziare dieci persone prelevate dal carcere cittadino. Il 17 agosto 1944, solo un giorno dopo l’omicidio di Fronteddu, tre di loro vennero impiccate sul luogo dell’attentato, in via Santa Lucia a Padova: Clemente Lampioni, Ettore Calderoni e Flavio Busonera (di Oristano); le altre sette, Luigi Pierobon, Cataldo Pressici, Primo Barbiero, Franco Panella e Saturno Bandini, Antonio Franzolin e il sardo Pasquale Muolo furono fucilate nel cortile della caserma di Chiesanuova. Muolo, renitente alla leva, era stato catturato durante un rastrellamento. Una lapide a ricordo del loro sacrificio è stata collocata nella caserma dove avvenne l’esecuzione.
– Pau Bachisio, figlio di Teresa Sechi e Giovanni, nacque a Buddusò (SS) il 30 agosto 1919. Nome di battaglia “Valerio”.
Dopo l’armistizio di Cassibile, anche Pau abbandonò la divisa militare per prendere parte alla guerra di Liberazione dal nazifascismo. Entrò nella “Divisione Garibaldi Destra Tagliamento” nel gennaio del 1944, diventando comandante di nucleo partigiano il 20 ottobre 1944. Nel dettaglio, si ricorda l’appartenenza al Battaglione “Bertin-Longo”, Brigata “Anthos” della “Ippolito Nievo B”.
Il suo nome è legato all’eccidio di Blessaglia, in cui persero la vita 8 partigiani, di cui due sardi. La sera del 24 e del 25 novembre 1944 i partigiani della zona fecero brillare le mine sistemate su due ponti di Blessaglia, frazione del Comune di Pramaggiore (VE). In realtà i ponti non vennero distrutti e si contarono solo lievi danni, ma la risposta dei nazifascisti fu comunque durissima. All’azione partigiana, il 26 novembre seguì un ampio rastrellamento che portò alla cattura di 5 combattenti (Michail Zinovski, Giodo Bortolazzi, Casimiro Zanin, Flavio Stefani, Giuseppe De Nile) e al ferimento -o uccisione secondo altre fonti- di un sesto uomo, il sardo Bachisio Pau. Probabilmente Pau venne catturato dopo uno scontro a fuoco in cui rimase gravemente ferito e venne poi trasportato in condizioni critiche a Blessaglia e ivi impiccato il 27 novembre 1944. I partigiani, irriconoscibili per le torture subite, dovettero sfilare col cappio al collo davanti a una folla impietrita, costretta ad assistere al macabro epilogo. A nulla servirono le suppliche di don Luigi Peressutti per salvare le vite dei giovani, che dopo la benedizione furono impiccati ai platani che costeggiavano la via Postumia di Blessaglia. I loro corpi, per ordine dei tedeschi, rimasero esposti allo sguardo della popolazione per due giorni e successivamente furono sepolti in una fossa comune del paese. Il 29 novembre, un nuovo rastrellamento avvenuto nella frazione di Belfiore portò alla cattura di altri due partigiani, Alfredo Fontanel e il sardo Antonio Cossa. I due, dopo interminabili torture avvenute presso il comando tedesco di Pravisdomini, vennero impiccati il 2 dicembre e i loro corpi rimasero appesi fino al 4, in quegli stessi alberi che avevano testimoniato il sacrificio dei loro compagni. Sul luogo dell’eccidio è stata posta una lapide commemorativa, una roccia con incisi i nomi dei martiri di Blessaglia, purtroppo spesso vandalizzata.
– Perra Pasquale, figlio di Maria Spada e Antonio, nacque a Pirri (Cagliari) il 19 giugno 1889. Residente a Cividale del Friuli. Nome di battaglia “Pettine”.
Anche Perra fu uno dei tanti militari che dopo l’8 settembre lasciarono la divisa ed entrarono a far parte delle formazioni partigiane. La scheda personale attesta che il combattente fece parte della “Divisione Picelli Tagliamento” dal 7 giugno 1944 al 28 aprile 1945, data della sua morte. Collaboratore e informatore delle forze partigiane locali, perse la vita a Cividale del Friuli, massacrato sotto la volta di Borgo San Pietro con scariche di mitra dalle SS mentre accorreva a informare i partigiani in procinto di occupare la città. La Banca dati dei caduti del Ministero della Difesa conferma come data di morte il 28 aprile.
– Pinna Antonio, figlio di Peppa Piliarvu e Baingio (agricoltore), nacque a Osilo (SS) il 12 marzo 1908. Nome di battaglia “Costante”.
Carabiniere, dopo l’armistizio di Cassibile decise di aderire alla lotta contro il nazifascismo entrando a far parte, nel maggio 1944, della Brigata Mazzini, Divisione Nino Nannetti. Pinna fin da subito fu promosso comandante di nucleo partigiano con il grado di sergente. Il suo nome è legato all’episodio di Santa Cristina, frazione di Quinto di Treviso (TV), che costò la vita a due partigiani. Tra l’agosto e il novembre 1944 le formazioni partigiane dislocate nella zona sabotarono in tre diverse occasioni la linea ferroviaria Treviso – Padova, all’altezza di Santa Cristina. In risposta a queste azioni, gli squadristi della XX Brigata Nera di Treviso minacciarono di morte la popolazione, diedero alle fiamme i carri di due carovane di zingari accampate nella piccola frazione e, in occasione dell’ultimo sabotaggio avvenuto il 1° novembre, invasero il paese sparando in aria e costringendo il sacerdote che officiava la messa per la festa di Ognissanti a esprimere il proprio rammarico per l’accaduto. A causa di una delazione, durante il rastrellamento esteso a tutto il territorio comunale gli squadristi catturarono due partigiani nascosti in un fienile, Gino Comiotto e Antonio Pinna, e li trascinarono a Santa Cristina. Camiotto fu barbaramente torturato, gli spezzarono le ossa a bastonate, perse un occhio e infine fu ucciso con una scarica di mitra nei pressi del cimitero locale. Pinna venne fucilato davanti alla chiesa del paese, senza neppure ricevere assistenza religiosa.
– Piras Canu Salvatore, figlio di Maria Pinna e Giuseppe, nacque a Dorgali (NU) il 17 gennaio 1920.
Piras, come attesta la sua scheda personale, fu capo di nucleo partigiano nella “Divisione Garibaldi Natisone”. La formazione, attiva in Friuli e successivamente anche in territorio jugoslavo, contava al suo interno la presenza di un centinaio di combattenti sardi, la gran parte giovani militari sbandati. Salvatore Piras fece parte del primo gruppo di 54 soldati guidati dall’orgolese Luigi Podda che, mobilitati dalla Repubblica di Salò, alla fine del gennaio 1944 avevano disertato le file del battaglione dislocato a Opicina (TR) per combattere contro nazisti e fascisti al fianco della formazione triestina.
Sebbene presente da poco tempo all’interno della “Garibaldi”, Piras assieme ad altri 5 ragazzi sardi si propose come volontario per un’impresa segreta e rischiosissima preparata dal comandante del “Battaglione triestino d’assalto” Remo Lagomarsino e dal vicecomandante Riccardo Giacuzzo. La notte del 3 febbraio 1944, 22 giovani capeggiati da Giacuzzo si incamminarono verso Merna, con addosso bombe a mano, fucili mitragliatori e bottiglie incendiarie. Percorsi 25 km, arrivarono al campo di aviazione di Ronchi dei Legionari dove sostavano gli aerei tedeschi “Junkers”, obiettivi della missione. Due uomini con le mitragliatrici si posizionarono ai lati del campo, protetto da un fosso colmo d’acqua, gli altri procedettero verso la pista dove erano parcheggiati i velivoli e attesero che tutti i compagni avessero raggiunto l’aereo assegnato. Aperta la porta della carlinga, vi lanciarono quasi simultaneamente bombe a mano e Molotov e si diedero alla fuga, coperta dal fuoco delle mitragliatrici amiche che risposero ai colpi dei tedeschi, colti di sorpresa dall’attacco. Durante la precipitosa ritirata, due partigiani vennero gravemente feriti e, rimasti isolati dal resto del gruppo, cercarono di attraversare il fiume Dottori che scorreva nei dintorni per trovare riparo sull’altra sponda. Purtroppo la corrente li trascinò via e i loro corpi vennero recuperati giorni dopo dagli abitanti di Ronchi, incastrati in una chiusa della foce. I ragazzi erano Carmine Congiargiu e Salvatore Piras, tutti e due sardi. Il loro sacrificio non fu vano: l’impresa ebbe come risultato quattro aerei distrutti e altri quattro danneggiati e fu talmente eclatante da essere menzionata anche da Radio Londra e Radio Mosca.
– Piredda Salvatore, figlio di Giovanna Antonia Marras e Giovanni Maria, nacque a Ossi (SS) il 15 maggio 1923. Nome di battaglia “Tissi”.
Contadino, fu chiamato alle armi poche settimane prima della destituzione di Mussolini e venne arruolato in aviazione. Alla data dell’armistizio, Piredda era stato trasferito con altri suoi compaesani e futuri partigiani (Cuggia, Martinez, Masia, Mura) al 51° Reggimento di Fanteria “Alpi”, presso la caserma Fortebraccio di Perugia. Dopo aver avuto l’ordine di pattugliare il capoluogo umbro l’8 e il 9 settembre, Piredda e gli altri soldati di leva vennero fatti rientrare in caserma per consegnare le armi, salvo ritrovarsi prigionieri e rinchiusi negli stessi locali. Esclusa la possibilità di far ritorno in Sardegna, affamati, senza riparo, braccati dai soldati tedeschi che davano la caccia ai disertori e attirati dalla propaganda messa in atto dal regime per raccattare gli sbandati, i militari decisero di arruolarsi nel Battaglione Angioy, il cui centro di raccolta si trovava a Capranica (VT). Lo scopo dell’addestramento, ignoto ai soldati, era quello di utilizzare il Battaglione sardo per la repressione partigiana nelle provincie di Gorizia e Trieste, al confine con la Slovenia, e per questo motivo il reparto venne inviato tra il 10 e l’11 dicembre a Poggioreale del Carso, oggi Villa Opicina. L’obiettivo di Barracu, però, non fu raggiunto. Dopo la spettacolare diserzione organizzata da Luigi Podda che abbandonò il Battaglione insieme a una cinquantina di militari sardi, seguirono altre rocambolesche fughe talmente numerose da rendere necessario lo scioglimento del presidio di Opicina. Stabiliti i contatti con la Resistenza, anche Piredda abbandonò la formazione repubblichina ed entrò a far parte della “Divisione Garibaldi Natisone” tra marzo e settembre 1944 (la scheda personale indica il mese di giugno). Non si conoscono le operazioni a cui prese parte Piredda, ciò che è noto è che perse la vita il 3 febbraio 1945, a Selva di Tarnova (Slovenia): non fece più ritorno da un servizio di guardia, come testimoniato dal suo compaesano e commilitone Cuggia. Secondo i familiari fu sepolto nel cimitero di Trieste.
– Piu Carmelo, figlio di Felicita Varsi e Stefano, nacque a Cagliari il 16 luglio 1899. Residente a Padova.
Anche in questo caso, l’unica informazione certa riguardante il periodo precedente all’ingresso nelle formazioni partigiane è che Piu era stato un militare dell’esercito italiano. Dopo l’armistizio fece parte della “Brigata Garibaldi -Settimo Battaglione Busonera- zona Padova” a partire dal 1 marzo 1945 e fino al 28 aprile dello stesso anno. La sua morte è da ricollegarsi alla Liberazione di Padova che fu particolarmente complicata a causa della minaccia del comando tedesco di reprimere nel sangue ogni tentativo di sollevazione. Prezioso fu l’arresto del generale von Alten con il suo stato maggiore, comandante della zona di Ferrara, catturato mentre attraversava il centro di Padova con il generale von Schering. I due prigionieri vennero costretti, assieme al generale Jurgen von Armin fermato da un altro colpo di mano dei partigiani, a sottoscrivere il patto di resa alle ore 12.20 del 28 aprile 1945. Uno dei protagonisti di questa giornata fu Carmelo Piu che, con la sua squadra, riuscì a bloccare in via Umberto I l’automobile del gen. von Alten, rimanendo ucciso nello scontro a fuoco. Il partigiano sardo perse la vita proprio il 28 aprile 1945, a poche ore dalla Liberazione della città. Una lapide ricorda il suo sacrificio nel Municipio di Padova.
Fonti principali:
– “Storia della resistenza veronese”, di Maurizio Zangarini; – Schede personali: Commissione regionale triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano; – Archivio tedesco: Arolsen Archives; – “L’antifascismo in Sardegna”, a cura di Brigaglia, Manconi, Mattone e Melis; – “Antifascisti e partigiani sardi”, di Tonino Mulas; – “Quelli della Montagna: storia del Battaglione Triestino d’Assalto”, di Giacuzzo e Scotti; – “Itinerario di lotta, cronaca della Brigata d’assalto Garibaldi – Trieste” di Riccardo Giacuzzo e Mario Abram; – “Verona la guerra e la ricostruzione”, a cura di Maristella Vecchiato; – Omaggio al sassarese che morì per la libertà, dal sito: “La Nuova Sardegna“; – Sulla missione Rye, dal sito: “Storia Minuta” di Adriano Maini; – Banca dati delle deportazioni veronesi; – Info sul Trasporto 111, dal sito: “Da Verona ai lager“; – “Sui sentieri dei partigiani nel massiccio del Grappa”, di Lorenzo Capovilla, Giancarlo De Santi; – “Il massacro del monte Grappa“, di Lorenzo Capovilla; – “Il rastrellamento del Grappa (dal 20 al 26 settembre 1944)”, di Livio Morello e Gigi Toaldo; – “La libera Repubblica partigiana di Carnia”, dal sito A.N.P.I.; – La lettera, dal sito: “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana“; – L’assalto alle carceri di via Spalato a Udine, dal sito: “Friuli Venezia Giulia in camper“; – Episodio di Silvella Cordignano, dal sito: “Stragi nazifasciste“; – Bartolomeo Meloni, dal sito: “La bocca del vulcano“; – “Trasporto n° 30 – Verona / Dachau”, dal sito “Da Verona ai lager“; – Le imprese dei Partigiani sardi, dal sito: “Tre passi avanti”; – Pietro Meloni, Schede A.N.P.I.; – Episodio di Padova, dal sito: “Stragi nazifasciste“; – Eccidio di Blessaglia, dal sito: “Stragi nazifasciste“; – Episodio di Santa Cristina, dal sito: “Stragi nazifasciste”; – Per Salvatore Piredda, il saggio “Dieci partigiani ossesi nella Resistenza italiana”, di Roberto Loi Piras; – Centro Studi Francesco Feltrin, “L’elenco dei caduti della Resistenza“; – “Quel 28 aprile 1945, ecco come fu liberata Padova”, dal sito: “Il Mattino di Padova“.
In questa pagina sono presenti le schede biografiche dei partigiani sardi (cognomi dalla A alla F) caduti nel Triveneto. Con ogni probabilità non compaiono tutti i combattenti che persero la vita durante la Resistenza, ma soltanto quelli i cui nomi sono stati individuati esaminando le varie fonti online e cartacee. Si è partiti analizzando gli elenchi presenti nella banca dati della “Commissione regionale triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano” e, attraverso l’incrocio con altre fonti, si è arrivati a ricostruire le biografie dei caduti in modo più o meno dettagliato.
Le schede comprendono, di norma, i dati biografici essenziali e, ove possibile, la storia del combattente e la causa del decesso. Si ricorda che nel caso il lettore fosse a conoscenza di ulteriori dettagli, nei commenti alla pagina potrà integrare o chiedere di modificare eventuali inesattezze che, vista la natura della ricerca, sicuramente non mancheranno. Sarebbe molto interessante poter ampliare almeno le biografie più scarne, possibilmente con l’aggiunta delle foto mancanti, in modo da ricordare le gesta e ridare un volto a questi uomini troppo spesso dimenticati.
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Cognomi dalla A alla F .
– Ardu Mario, figlio di Assunta Piludu e Gaetano (capostazione), nacque a Lanusei (NU) il 4 dicembre 1905. Terminato il servizio di leva, decise di intraprendere la carriera militare arruolandosi, dapprima, come soldato volontario nel reparto artiglieria pesante e frequentando poi, in qualità di sergente, la scuola di addestramento per l’artiglieria pesante a Nettuno e un corso di specializzazione sugli esplosivi a Piacenza. Nel 1935 fu trasferito nel veronese come sottoconsegnatario del deposito munizioni ed esplosivi del Forte San Briccio, di cui divenne presto comandante. Nel bel mezzo del conflitto mondiale, Ardu in qualità di maresciallo fu posto al comando del deposito munizioni presente nella periferia di Verona, nella zona del Lazzaretto. Con l’armistizio di Cassibile e l’esercito allo sbando, anche Ardu lasciò la divisa militare e diede inizio alla sua avventura partigiana.
Come indicato nella sua scheda personale, a partire dall’aprile 1944 si arruolò nelle formazioni della Brigata Manara, precisamente nel Battaglione Gian Dalla Bona che operava nel territorio di Verona. In qualità di consigliere militare fece parte del 2° CLN veronese. Il 9 luglio 1944, sorpreso durante un’azione di sabotaggio nel deposito munizioni del Lazzaretto, fu tratto in arresto dalle Brigate Nere e incarcerato prima presso il Palazzo INA (sede del Comando Generale SS e Polizia di Sicurezza) e poi nel Carcere giudiziario degli Scalzi a Verona. Trasferito temporaneamente nel Campo di concentramento e transito di Bolzano, venne deportato nel Campo di concentramento di Flossenbürg con il “trasporto n. 81” assieme ad altri 431 prigionieri. Il convoglio partì da Bolzano il 5 settembre 1944 e arrivò a destinazione due giorni dopo.
Nel campo di Flossenbürg venne identificato come deportato per motivi politici e gli venne assegnata la matricola n. 21672. Il 30 settembre 1944 fu trasferito a Hersbruck (uno dei campi satellite di Flossenbürg), dove morirà il 2 dicembre dello stesso anno, vittima di un esperimento medico compiuto dai nazisti. Drammatica la testimonianza del sassarese Vittore Bocchetta, compagno di prigionia, che nel libro “’40-’45 Quinquennio infame” descrisse gli ultimi attimi di Ardu: “-Mario, Mario, guardami che cosa succede? Ardu?- Non mi sente, non mi riconosce, non è in sé, poi mi rendo conto dell’esperimento: ha una gamba scuoiata, gli è stata tagliata la pelle […]. Ad un tratto il poveretto rompe in urla sconnesse e cerca di muoversi, cade, grida parole gutturali e incomprensibili. Cerco di sorreggerlo e lo chiamo con tenerezza, ma il volto ha perso ogni espressione (ricordo che parlava con gli occhi). Di schianto, smette di gridare, si affloscia inerte, muore”. Oggi il maresciallo Ardu riposa nel Cimitero militare italiano d’onore di Francoforte sul Meno.
– Busonera Flavio, figlio di Giovanna Angela Crabai e Francesco (negoziante), nacque a Oristano il 28 luglio 1894. Dopo aver completato gli studi liceali a Cagliari, con lo scoppio della Grande guerra venne chiamato alle armi e si congedò col grado di tenente dei bombardieri. Nel dicembre del 1921 si laureò in medicina all’Università di Cagliari con la tesi dal titolo “Malaria e lotta antimalarica con speciale riguardo alla Sardegna”, e diede avvio alla professione come medico condotto a Sarroch. Partecipò attivamente alle battaglie politiche del dopoguerra manifestando apertamente le sue idee (fu dapprima socialista poi, conosciuto Gramsci, si avvicinò al Partito Comunista e fu tra i fondatori del PCI cagliaritano), subì un processo e venne rimosso dal grado di tenente di complemento per “manifestazione pubblica di un’opinione ostile alla istituzione fondamentale dello Stato”. Perseguitato dai fascisti, decise di lasciare la Sardegna per il continente. Per un breve periodo visse a Claut, piccolo paese del Friuli Venezia Giulia, e nel 1926 si trasferì in Veneto, a Cavarzere, dove continuò a esercitare la professione medica distinguendosi per la sua grande umanità e generosità. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, allacciò i contatti con alcune formazioni partigiane locali e partecipò attivamente al CLN di Cavarzere.
Durante la guerra di Liberazione ritornò nelle file del partito socialista e diventò commissario politico della Brigata “Venezia”. Il contributo di Busonera alla lotta antifascista fu notevole: suo era il compito di organizzare il rifornimento di armi e viveri per i partigiani della zona, partecipò alla costituzione di nuove bande, aiutò i soldati alleati ricercati dai nazifascisti. Ma Busonera era innanzitutto un medico e la sua presenza nelle bande del territorio fu preziosa per la cura dei feriti e degli ammalati. Sarà proprio questa sua qualità a farlo cadere nella trappola dei fascisti. Il 27 giugno del 1944, fingendosi partigiani, due brigatisti neri leggermente feriti chiesero aiuto al medico per essere curati. Stabiliti i rapporti tra Busonera e la Resistenza, i fascisti lo arrestarono e il medico venne rinchiuso nel carcere Paolotti a Padova per circa 2 mesi. La famiglia si attivò per ottenere il rilascio, le formazioni locali pensarono di liberarlo con un colpo di mano alle carceri, ma tutto rimase in sospeso fino al 17 agosto 1944, quando Flavio Busonera venne impiccato per rappresaglia e senza processo a seguito della morte di Fronteddu, colonnello fascista di origini sarde.
La rappresaglia, voluta non dai tedeschi ma dagli italiani, non ebbe in realtà nessun vero legame con la morte del colonnello essendo questo stato ucciso da sicari provenienti dall’ambiente fascista, probabilmente a causa di gelosie per una donna contesa. Ciò nonostante all’omicidio fu attribuita una motivazione politica e i fascisti, per dare l’esempio, fucilarono 7 uomini (Luigi Pierobon, Cataldo Pressici, Primo Barbiero, Franco Panella, Saturno Bandini, Antonio Franzolin e il sardo Pasquale Muolo) e ne impiccarono altri 3, Clemente Lampioni, Ettore Calderoni e Flavio Busonera. I fascisti costrinsero gli studenti dell’Università ad assistere all’impiccagione; alcuni di essi si accorsero che il boia tremava e sentirono Busonera dirgli: “Tu tremi, io no”. Poi gridò : “Viva l’Italia! Viva il socialismo!“. La corda utilizzata per l’impiccagione era troppo lunga e purtroppo le tre vittime non morirono subito perché poterono appoggiare i piedi a terra. Ci pensarono i carnefici a soffocarli, spingendoli con forza verso il basso. Come monito per la popolazione, quei corpi straziati furono lasciati per lungo tempo esposti agli sguardi dei passanti. Qualche giorno dopo apparve a Padova un manifesto con la frase: “-Perchè tremate, domandò al boia, io non tremo! Mettete bene il laccio-.Nella stretta del capestro l’ultima sua voce fu per gridare: -Viva l’Italia!– Padovani, voi non dimenticherete”. Sul luogo del tragico evento, in via Santa Lucia a Padova, una lapide ricorda l’eccidio.
Flavio Busonera fu decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione: “Durante la lotta di liberazione si distingueva per patriottica attività, arditamente svolta a favore dei partigiani. Tratto in arresto manteneva durante i lunghi interrogatori e nella dura prigionia, contegno nobile ed esemplare. Sacrificato alla rappresaglia tedesca, affrontava con fierezza il capestro, incoraggiando fino all’ultimo i compagni di martirio e sacrificando la vita agli ideali di Libertà e di Patria che aveva sempre servito. Padova 17 agosto 1944”. Scrisse l’ultima lettera alla moglie il giorno dell’esecuzione, inconsapevole di ciò che sarebbe avvenuto. Mia cara Maria, ti comunico che in questi giorni ci trasferiranno al carcere penale ove dicono che ci siano molte minori possibilità di comunicazione e di ricevere roba da fuori. Pertanto cerca di farmi avere notizie a mezzo di padre Carella. Io di salute sto benissimo e non mi dispero, solamente non vedo l’ora di potervi riabbracciare tutti e speriamo che il tempo non sia molto lontano. Non scoraggiarti ed abbi forza d’attendere e fede in giorni migliori. Spero al prossimo colloquio di vedere Gianni che è il solo che non ho ancora visto durante la mia permanenza in carcere. Ho ricevuto il sapone, il filo, il dolce, il vino e le sigarette e ti ringrazio infinitamente di tutto. Per ora non mi occorre altro tranne il solito dolce se ti sarà possibile farmelo avere. Ti rimando le tue lettere che ho paura che mi trovino ma ti prego caldamente di conservarmele. Raccomando a tutti i figli, specie a Giannina e Maria Teresa, di essere ubbidienti a te in tutto e d’ascoltarti senza discutere. Ringrazio infinitamente Giuseppina di tutto e salutala tanto per me, come pure la Rina. A te, Giannina, Gianni, Maria Teresa, Francesco, infiniti baci. Vi ho sempre nel cuore e vi penso continuamente. Ciao Maria cara, infiniti bacioni ed arrivederci presto. Tuo Flavio.
– Cabriolu Puddu Giovanni, figlio di Maria Puddu e Giuseppe, nacque a Esterzili (SU) il 14 novembre 1906. Conclusi gli studi liceali con il conseguimento del diploma, si arruolò nell’Arma dei Carabinieri Reali e, con lo scoppio della guerra, fu inviato in Albania dove ottenne la croce di guerra con la seguente motivazione: “Durante un violento attacco di preponderanti forze ribelli a un nostro presidio, assumeva di iniziativa il comando della difesa di un posto fortemente impegnato. Coordinando l’azione di fuoco dei dipendenti e infondendo loro fiducia e coraggio, riusciva a mantenere il possesso della difficile posizione. Esempio di ardimento e di alto sentimento del dovere. – Pljevlje 1-2 dicembre 1941”. Agli inizi del 1942, fu posto al comando della caserma di Bassano del Grappa in qualità di maresciallo.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, si distinse per lo spirito di solidarietà verso la popolazione e per la mancanza di collaborazione nei confronti dei tedeschi. Fu proprio questo il motivo che causò il suo trasferimento al piccolo centro di Barbarano Vicentino assieme alla famiglia nell’ottobre del 1943. Lo spostamento forzato, però, non incise sul comportamento del maresciallo che nonostante le continue minacce dei nazifascisti continuò nella sua instancabile lotta a difesa della popolazione. La sua scheda personale attesta che in questo periodo, a partire da ottobre, Cabriolu Puddu fece parte della formazione partigiana “Brigata Argiuna”, Divisione Vicenza.
Il maresciallo venne arrestato nell’aprile del 1944 e portato nella prigione di Vicenza, per poi essere trasferito momentaneamente nel campo di concentramento di Bolzano. Da qui il lungo viaggio verso la Germania, dove fu internato nel lager di Dachau e posto ai lavori forzati. Morì in prigionia nel 1945.
– Campus PietroMaria, figlio di Luigia Sanna e Stefano, nacque a Pattada (SS) il 17 gennaio 1920. Nome di battaglia “Rino”.
Come indicato nella sua scheda personale, Campus fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” dal 15 marzo 1944 al 21 maggio dello stesso anno, data della sua morte. Questa formazione partigiana operò in Friuli e, a partire dal 1944, anche in territorio jugoslavo.
Due comandanti partigiani, Giacuzzo e Scotti, nel libro “Quelli della montagna” descrivono le imprese del Battaglione d’assalto “Trieste” facente parte dell’omonima brigata partigiana “Garibaldi”. In un capitolo intitolato “Arrivano i sardi”, i due autori raccontano l’ingresso nella formazione, verso la fine del gennaio 1944, di 54 militari provenienti dalla Sardegna che avevano disertato Salò [al termine del conflitto i sardi presenti in questa Divisione saranno un centinaio]. Scrivono Giacuzzo e Scotti: “Tutti si dimostrarono in seguito ottimi combattenti, convalidando la scelta fatta con il sacrificio della propria vita. Non è possibile ricordarli tutti, ma alcuni nomi di caduti restano impressi nella memoria“. Tra i combattenti che persero la vita viene citato anche “Pietro Maria Campus di Orgosolo“, con molta probabilità si tratta dello stesso partigiano. Sempre Giacuzzo descriverà, insieme a Mario Abram, la vicenda riguardante la morte di Campus nel libro: “Itinerario di lotta, cronaca della Brigata d’assalto Garibaldi – Trieste”. Campus faceva parte di una “caraula”, termine italianizzato della parola slovena “karaula” indicante un posto di guardia dove sono in forza gruppi di uomini, corrieri o staffette, che dipendono da un centro specializzato per i collegamenti da un settore all’altro. Il 20 maggio 1944 la “caraula n. 3” del settore di Ranziano, di cui faceva parte Campus, venne scoperta e attaccata da una colonna tedesca impegnata in un’azione di rastrellamento nella zona. Caddero sotto le raffiche Giuseppe Cucchiara, Pietro Maria Campus, Zvonimir Saksida e i componenti della famiglia che li ospitava, Joze e Angela Mozetiè, con la figlia Angela. I loro corpi bruciarono nella casa data alle fiamme. Il capo caraula Armando Romualdi e il giovane corriere Mario Agostinelli vennero catturati per poi essere giustiziati; si salvò solo Battista Borio che riuscì a nascondersi. Le spoglie di Campus vennero tumulate a Ranziano.
– Carboni Giuseppe, figlio di Anna Secci e Sebastiano, nacque a Tonara (NU) il 28 dicembre 1919.
Pochissime le informazioni trovate. Lasciata la divisa militare dopo l’armistizio, come indicato nella sua scheda personale fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone”, in qualità di caposquadra, dal 10 settembre 1943 al 10 febbraio 1944 data della sua morte. Carboni perse la vita in un combattimento avvenuto a Lipa, città della Slovenia. Nello scontro morì anche un altro partigiano sardo, Sebastiano Sanna di Bitti. Il corpo di Carboni venne sepolto a Lipa.
– Caria Antonio, figlio di Luigi, nacque a Villasimius (SU) il 3 febbraio 1923.
Come indicato nella sua scheda personale, anch’egli come tanti suoi corregionali fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone”. Militare sbandato dopo l’armistizio di Cassibile, entrò nella Brigata il 10 settembre 1943 e vi rimase fino al 28 febbraio 1945, data della sua morte. Morì a Malenski, oggi in territorio sloveno, non sono note le circostanze del decesso. La Banca dati dei caduti del Ministero della Difesa conferma come luogo di morte la Jugoslavia. Purtroppo non sono state trovate altre informazioni.
– Casu Ferruccio nato in provincia di Cagliari.
Sappiamo solo che divenne partigiano combattente nell’ottobre 1943, quando entrò nella “Divisione Garibaldi Natisone” operante nel territorio del Friuli Venezia Giulia e successivamente in terra jugoslava. Perse la vita il 20 marzo 1945 a Gradiscutta, frazione del comune di Nova Gorica, e qui fu tumulato.
– Cherchi Battista, figlio di Rosa Melis e Giovanni, nacque a Pabillonis (SU) il 7 agosto 1927.
Anche Cherchi fu uno dei tanti soldati che dopo l’8 settembre lasciarono la divisa e diedero il loro contributo alla Resistenza. La scheda personale redatta dalla “Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” attesta che Cherchi fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” dal 15 giugno 1944 e fino al 1° aprile 1945, data della sua morte. Perse la vita a Predmejs, nell’attuale Slovenia, dove fu sepolto. Anche in questo caso la mancanza di informazioni più dettagliate ci impedisce di ricostruire la storia del combattente.
– Coccu Ciriaco, figlio di Giuseppe, nacque a Bitti (NU) il 27 febbraio 1924. Nome di battaglia “Balosso”. Pochissime le notizie sul suo conto. Sappiamo che anche Coccu, militare sbandato, dopo l’armistizio fece parte della Divisione d’Assalto “Garibaldi Natisone” operante in Friuli Venezia Giulia e in territorio jugoslavo. Morì il 4 marzo 1945 a Boric Vipacco, in Slovenia (e qui sepolto), torturato fino alla morte dai nazisti. Il suo nome viene menzionato nel libro “Quelli della montagna” di Giacuzzo e Scotti.
– Congiargiu Carmine, figlio di Grazia Mattei e Salvatore, nacque a Orgosolo (NU) il 13 luglio 1922. Nome di battaglia “Cervo”.
La sua scheda personale indica l’appartenenza alla “Divisione Garibaldi Natisone” già dal settembre 1943 ma, probabilmente, si tratta di un errore di trascrizione, ripetuto, tra l’altro, anche per la data di morte. E’ necessario ricordare che la formazione friulana contava al suo interno la presenza di un centinaio di combattenti sardi, la gran parte giovani militari mobilitati dalla Repubblica di Salò che avevano disertato le file del battaglione dislocato a Opicina, vicino Trieste. Anche Congiargiu, come attestato dalla Banca dati del Ministero della Difesa, prima dell’ingresso nella Brigata era un soldato dell’esercito italiano.
Anche se non possiamo ricostruire nel dettaglio la sua storia, è certo che Congiargiu fu uno dei protagonisti dell’operazione a Ronchi dei Legionari preparata dal comandante del “Battaglione triestino d’assalto” Remo Lagomarsino e dal vicecomandante Riccardo Giacuzzo. A questa impresa parteciparono sei ragazzi sardi. La spedizione ebbe inizio la notte del 3 febbraio 1944, quando 22 volontari guidati da Giacuzzo e armati di due fucili mitragliatori (uno dei quali sottratto ai nazisti durante un combattimento), bombe a mano e numerose bottiglie incendiarie si incamminarono in direzione Merna. Dopo 25 km di dura marcia, il gruppo arrivò all’obiettivo: il campo di aviazione di Ronchi, dove sostavano gli aerei tedeschi “Junkers” carichi di bombe. Due uomini sistemarono le mitragliatrici ai lati del campo, protetto da un fosso colmo d’acqua largo circa tre metri, mentre gli altri si addentrarono nella pista buia, saltando il fossato. Ogni aereo venne raggiunto da due uomini che, aperta la porta della carlinga, lanciarono quasi simultaneamente le Molotov e le bombe a mano all’interno degli apparecchi. Nel frattempo, i mitraglieri partigiani aprirono il fuoco per coprire la ritirata dei compagni dall’attacco dei tedeschi che, colti di sorpresa, iniziarono a sparare all’impazzata. L’impresa fu un successo: quattro aerei distrutti e altri quattro danneggiati, il fatto fu talmente eclatante da essere menzionato anche da Radio Londra e Radio Mosca. Purtroppo la formazione pianse la perdita di due ragazzi, tutti e due sardi: Salvatore Piras e Carmine Congiargiu. I due partigiani, dopo essere stati feriti in modo molto grave durante la fuga, rimasti isolati cercarono di attraversare il fiume Dottori che scorreva lì vicino per mettersi in salvo sull’altra sponda, ma la piena dell’acqua li trascinò via. Qualche giorno dopo, i loro corpi vennero ritrovati incastrati in una chiusa alla foce del canale e furono sepolti dagli abitanti di Ronchi, nonostante il pericolo di rappresaglie da parte dei fascisti. Il volto di questo eroe, oggi, è ritratto in un murale a Orgosolo, che ha dedicato al suo concittadino anche una via.
– Cossa Antonio Angelo, figlio di Margherita Pudda e Giovanni, nacque a Bultei (SS) il 4 gennaio 1921. Nome di battaglia “Remmit”.
Anche in questo caso, l’unica informazione certa riguardante il periodo precedente all’ingresso nelle formazioni partigiane è che Antonio Cossa era stato un soldato dell’esercito italiano. Dopo l’armistizio fece parte della “Brigata Garibaldi -Ippolito Nievo B-” a partire dal gennaio del 1944 e fino al 2 dicembre 1944, data della sua morte a seguito dell’eccidio di Blessaglia. La strage, che costò la vita a 8 partigiani (di cui due sardi), si svolse in due giorni differenti, il 27 novembre e il 2 dicembre, e fu la risposta nazifascista a un tentativo di sabotaggio da parte della brigata “Ippolito Nievo B”. La sera del 24 e del 25 novembre, un gruppo di partigiani fece brillare due mine sui ponti di Blessaglia (VE) causando lievi danni ma provocando un ampio rastrellamento che portò alla cattura di 5 combattenti (Michail Zinovski, Giodo Bortolazzi, Casimiro Zanin, Flavio Stefani, Giuseppe De Nile) e al ferimento -o uccisione secondo altre fonti- di un sesto uomo (il sardo Bachisio Pau). I partigiani, con le corde al collo e irriconoscibili per le torture subite, furono fatti sfilare davanti alla folla impietrita, costretta ad assistere sotto la minaccia delle armi. Dopo la benedizione di don Luigi Peressutti, che tentò invano di liberare le povere vittime, i partigiani furono impiccati ai platani che costeggiavano la via Postumia a Blessaglia. I corpi, per ordine dei tedeschi, rimasero esposti fino al pomeriggio del 29 novembre e vennero infine staccati e distesi con la faccia a terra perchè non degni di rivolgere gli occhi al cielo. Trasportati al cimitero di Pramaggiore (VE), furono sepolti nella fossa comune numero 260. Nel frattempo, nella frazione di Belfiore, vennero arrestati altri due partigiani, Antonio Cossa e Alfredo Fontanel. I due furono prima torturati presso il comando tedesco di Pravisdomini e poi impiccati a Blessaglia il 2 dicembre, in quegli stessi alberi dove avevano trovato la morte i loro compagni. I corpi di Cossa e Fontanel rimasero appesi, come monito alla popolazione, fino al 4 dicembre, quando vennero trasportati al cimitero e sepolti.
Sul luogo dell’eccidio è stata posta una lapide commemorativa, una roccia con incisi i nomi dei martiri di Blessaglia e i versi di una poesia di Ungheretti: “Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce perchè tutti li avessero aperti per sempre alla luce”.
– Cuccu Giuseppe, figlio di Assunta Corda e Raimondo, nacque a Orgosolo (NU) il 12 agosto 1923. Nome di battaglia “Barbarossa”.
Grazie alla scheda personale redatta dalla “Commissione regionale triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” scopriamo che dopo l’armistizio, Cuccu entrò a far parte della “Divisione Garibaldi Natisone”, operante nel Friuli Venezia Giulia e poi in territorio jugoslavo. Morì il 25 maggio 1944 a Ranziano, comune sloveno, ucciso da fascisti italiani. Cuccu era un portaordini che quel giorno ebbe il compito di accompagnare al comando di brigata alcuni prigionieri fascisti che avevano espresso l’intenzione di unirsi ai garibaldini. Durante il tragitto questi lo colpirono a morte, riuscendo così a fuggire. Fu sepolto a Ranziano.
Anche Cuccu prima di partecipare al movimento di Liberazione era stato un militare, uno dei tanti giovani sardi che guidati dall’orgolese Luigi Podda decisero di disertare da Salò. Il suo sacrificio è ricordato in un murale a Orgosolo, suo paese natale che gli ha dedicato anche una via.
– Daga (o Dagas) Giuseppe [da identificare]
Il suo sacrificio venne ricordato dall’orgolese Luigi Podda, compagno di lotta nella “Divisione Garibaldi Natisone”. Daga, appartenente alla “Brigata Fontanot”, perse la vita nel febbraio 1945 in Slovenia. Purtroppo al momento non si hanno altre informazioni.
– Deiana Antonio, figlio di Agostina Pisu e Vincenzo (contadino), nacque a Tertenia (NU) il 24 marzo 1909.
Incrociando i dati di varie fonti si è potuta ricostruire, seppur parzialmente, la sua storia. Militare, residente a Ronchi dei Legionari (GO), nel 1937 si sposò con Lucia Manian da cui ebbe un figlio. Dopo l’armistizio di Cassibile, Deiana entrò a far parte della “Divisione Garibaldi Natisone” nel gennaio 1944, come indicato nella sua scheda personale, e ufficialmente vi rimase fino al 15 aprile 1945, quando venne dichiarato disperso.
Grazie alla consultazione dei documenti custoditi nell’archivio tedesco Arolsen, sappiamo che fu arrestato il 24 maggio 1944 a Ronchi. In quel giorno, nel comune friulano ci fu un imponente rastrellamento condotto dalle truppe tedesche e dai repubblichini italiani della “Banda Colotti”, nota per la sua lotta anti-partigiana. Alle 5 del mattino i nazifascisti giunsero nel paese, irruppero nelle case dei partigiani e dei loro collaboratori e prelevarono 68 persone caricandole sui camion; tra loro vi era Antonio Deiana che allora abitava lungo il viale dedicato al Principe Umberto. Su disposizione della Sipo di Trieste (polizia di sicurezza), il 31 maggio i prigionieri furono trasferiti in Germania con il “trasporto n. 48”, avente destinazione il campo di concentramento di Dachau. Deiana fu internato nel lager il 2 giugno, con il numero di matricola n. 69620. All’interno del campo dichiarò come professione quella di “costruttore di aerei”. Da allora non si ebbero più notizie.
– Delogu Giorgio, figlio di Giovanni, nacque a Bitti (NU) il 3 Dicembre 1924. Nome di battaglia “Lucertola”.
Anche Delogu fece parte della nutrita schiera di militari sardi che, dopo lo sbandamento dell’esercito, decisero di operare nella “Divisione Garibaldi Natisone”. Il 25 aprile 1944, a Osek, frazione di Nova Gorica oggi in territorio sloveno, il comando di brigata mandò una parte dei novizi accompagnati da staffette esperte in pianura, per prelevare dai magazzini dei comitati della 3^ zona armi e vestiario. La pattuglia, ancora inesperta e in gran parte disarmata, venne intercettata da autoblindo tedesche all’altezza del villaggio di Osek, in un grande spiazzo. All’avvicinarsi dei mezzi, invece di disperdersi e trovare un rifugio, i partigiani più inesperti si misero a correre allo scoperto, diventando facile bersaglio per le mitragliatrici tedesche. Undici ragazzi rimasero sul terreno, tra loro anche Giorgio Delogu.
– Erriu Angelo, figlio di Maria Valdes e Antonio, nacque a Senorbì (SU) il 9 febbraio 1924.
Pochissime le informazioni trovate. La scheda personale redatta dalla “Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica di partigiano” attesta che Erriu, abbandonata la divisa militare, fece parte della “Divisione Garibaldi Natisone” a partire dal settembre del 1944 e fino a gennaio 1945, probabilmente data in cui venne dichiarato disperso. Secondo i dati del Ministero della Difesa, il luogo di morte (o di dispersione) sarebbe l’Italia.
Nel dicembre del 1971, il Comitato Internazionale della Croce Rossa su invito del Ministero della Difesa fece una richiesta scritta agli archivi del S.I.R. (centro di documentazione e ricerca sulle vittime delle persecuzioni naziste) nella speranza di poter trovare nuovi fascicoli che potessero far luce sul destino del disperso. Nel documento si ipotizzava un possibile arresto di Erriu da parte delle forze armate tedesche nel settembre del 1943, a Milano. La risposta fu negativa.
– Falchi Antonio, figlio di Antonio Giuseppe, nato a Mores o a Mara (SS). Nome di battaglia “Maras”. [Potrebbe essere il militare Falchi Antonio Andrea nato a Mara il 18 febbraio 1918, dati da verificare].
Entrò nella “Divisione Garibaldi Natisone” nell’ottobre del 1943 e vi rimase fino al 23 aprile 1944, probabilmente data della sua morte. In quei giorni, la Compagnia staccata a Ranziano, piccolo centro della Slovenia, fu improvvisamente attaccata dalle forze nazifasciste. Protetti dal fuoco della mitragliatrice in mano al partigiano Basile, tutti gli uomini riuscirono a raggiungere il bosco vicino trovando riparo. Il mitragliere, incurante del pericolo, continuò a sparare fino a che venne falciato da una raffica nemica, cadendo a terra esamine. Anche il porta munizioni venne gravemente ferito: catturato dai tedeschi e caricato su una barca, durante l’attraversamento del fiume Vipacco imbracciò i fucili presenti sul fondo dell’imbarcazione e si gettò in acqua, consapevole che non sarebbe mai più risalito. Questo ragazzo era il giovane sardo Antonio Falchi.
– Fancello Mauro Antonio, figlio di Giovanna Larzedda e Giovanni, nacque a Bitti (NU) il 27 ottobre 1924.
Fu uno dei tanti soldati sardi sbandati che entrarono a far parte della “Divisione Garibaldi Natisone” operante nel Friuli e, sul finire del 1944, nel territorio jugoslavo. Secondo le informazioni riportate sulla scheda personale, Fancello fece parte della formazione partigiana dal 23 maggio 1944 al 23 marzo 1945. Fu dichiarato disperso in combattimento sul monte Blegos, nel Comune di Škofja Loka, attualmente parte della Slovenia. In queste terre, l’evoluzione del fronte di guerra nei Balcani indusse i nazisti a una cruenta offensiva per garantirsi una via di fuga verso la Germania. A farne le spese furono le popolazioni locali e i partigiani delle due nazionalità, in particolar modo i combattenti della “Divisione Garibaldi”, duramente colpiti dalla violenza nemica.
Nel 1977 il Comitato internazionale della Croce Rossa inviò agli archivi del S.I.R. Arolsen una richiesta scritta per avere informazioni sul disperso, ipotizzando la cattura di Fancello da parte delle forze armate tedesche e il successivo trasferimento in Germania. Anche in questo caso la risposta fu negativa. Di lui non si seppero altre notizie.
– Farina Mario, figlio di Domenica Spano e Antonio, nacque a Olbia il 2 febbraio 1926.
Dopo l’armistizio di Cassibile, anche Farina abbandonò la divisa militare per prendere parte alla guerra di Liberazione dal nazifascismo. Membro dei Gruppi d’azione patriottica, entrò nella “Divisione Garibaldi Natisone” nell’ottobre del 1943, a soli 17 anni, e vi rimase fino al 27 marzo 1945, presumibilmente data della sua morte. La sua scheda personale riporta che il decesso avvenne in seguito a un combattimento avvenuto a Staranzano, piccolo centro del Friuli Venezia Giulia. Secondo varie fonti, Farina si trovava insieme a Bernardino Ruiu (nome di battaglia “Mignolo”) quando venne ucciso. Di ritorno da una missione, i due partigiani entrarono in un bar e lì furono sorpresi da una pattuglia di tedeschi che, sospettata la loro appartenenza al movimento di Liberazione a seguito di una delazione, li mise spalle al muro e iniziò la perquisizione alla ricerca di prove. Approfittando di un momento di distrazione, ben conscio che quell’arresto avrebbe significato morte certa, Ruiu riuscì a togliere la pistola nascosta all’interno dello stivale e, con l’arma in pugno rivolta verso i tedeschi, scappò via insieme al suo compagno. Nello scontro a fuoco rimasero a terra quattro vittime: Mario Farina, colpito a morte dai nazisti, e tre nazisti, colpiti a morte da Bernardino Ruiu. Oggi Farina è ricordato da una targa a Staranzano e da una via a Olbia.
Fonti principali:
– Il ricordo di Vittore Bocchetta, dal sito: “Il Risveglio della Sardegna“; – Elenco caduti Cimitero militare Francoforte sul Meno, dal sito: “Pietre della Memoria“; – Archivio tedesco: Arolsen Archives; – Schede personali: Commissione regionale triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano; – Banca dati delle deportazioni veronesi; – Info sul Trasporto 81, dal sito: “Da Verona ai lager“; – Ricordando il maresciallo Ardu, dal sito: “Tottus in pari“; – “’40 – ’45 Quinquennio infame”, di Vittore Bocchetta; – Biografie A.N.P.I.; – Flavio Busonera, il medico buono, un eroe dimenticato dai sardi, dal sito: “Tottus in pari”; – Antifascisti e partigiani sardi, di Tonino Mulas; – La lettera, dal sito: “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana“; – Puddu, l’eroe della Resistenza che il nipote recupera dall’oblio, dal sito: “Il Tirreno“; – “Quelli della Montagna: storia del Battaglione Triestino d’Assalto”, di Giacuzzo e Scotti; – “Itinerario di lotta, cronaca della Brigata d’assalto Garibaldi – Trieste” di Riccardo Giacuzzo e Mario Abram; – “L’antifascismo in Sardegna”, a cura di Brigaglia, Manconi, Mattone e Melis; – Dal sito dell’A.N.P.I., “Patria Indipendente” di Natalino Piras; – L’eccidio di Blessaglia, dal sito: “Stragi nazifasciste“; – I Martiri di Blessaglia, dal sito: “San Donà di Piave“; – Eroi e caduti sardi, elenco Unione Sarda; – Il ponte, di Natalino Piras, dal sito “La Bottega del Barbieri“; – Omaggio ai 68 ronchesi finiti nei lager nazisti, dal sito “Il Piccolo“; – I trasporti per Dachau, dal sito: “Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti“; – Da territori di guerra a terre di pace, dal sito: “Patria indipendente“; – Jubannedda Piccu la madre del partigiano, dal sito: “L’Ortobene“.
È ben noto l’apporto che i sardi diedero alla Resistenza e alla guerra di Liberazione in ogni parte dell’Italia e persino all’estero.
I partigiani sardi, nella gran parte dei casi, erano militari che dopo l’armistizio dell’8 settembre si trovarono lontano dalla propria regione, inquadrati nelle varie forze armate dislocate nella penisola o all’estero, nelle truppe italiane di occupazione in Jugoslavia, Albania e Grecia. Vi erano poi gli antifascisti, che provenivano dal confino o dalle carceri in cui scontavano la pena come detenuti politici, e i combattenti immigrati (o figli di immigrati) giunti nel continente in cerca di lavoro.
Dopo la firma dell’armistizio, abbandonate a se stesse e con ordini contradditori, le truppe italiane di fronte all’occupazione tedesca e alla minaccia di arresti e deportazioni sbandarono e non riuscirono a opporre una tenace resistenza. I soldati in fuga che abitavano nel Centro-Nord riuscirono a far ritorno alle loro case, mentre più problematica fu la situazione di coloro che provenivano dal Meridione e che non potevano scendere a Sud della linea lungo cui si scontravano gli Alleati e l’esercito tedesco. Disperata la situazione dei sardi: non c’era nessuna possibilità di attraversare il mare per ritornare nell’isola. Chi riuscì a evitare la cattura e la deportazione come IMI nei campi di raccolta in Germania, cercò di nascondersi nelle campagne, magari sperando di trovare ospitalità presso le famiglie del luogo in cambio di un prezioso aiuto nei campi. Per gli altri che cercavano un riparo, due erano le soluzioni per sopravvivere: prendere contatti con la rete antifascista del territorio o prendere servizio (per scelta o per necessità) nel nuovo esercito fascista rispondendo ai bandi della Repubblica sociale. Moltissimi saranno i sardi che sceglieranno la prima opzione, entrando a far parte delle formazioni partigiane locali.
Il numero di combattenti sardi nel Triveneto (secondo i dati della Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano) si attesta intorno alle 200/220 unità. Questi numeri sono variabili in quanto influenzati dal contributo che questi uomini diedero alla lotta di Liberazione. Nell’elenco sottostante sono riportati i nomi di coloro che ottennero la qualifica di partigiano, patriota e benemerito mentre sono esclusi quei combattenti che hanno partecipato alla guerra di Liberazione per un periodo ritenuto non sufficiente a ottenere il riconoscimento e coloro che non hanno contribuito attivamente alla lotta. Cliccando sui nomi evidenziati si potranno conoscere le singole storie. Come ogni elenco del genere, esso può presentare qualche lacuna o errore oggettivo (molto frequenti, ad esempio, gli errori riguardanti le date o quelli di trascrizione dovuti alla particolarità dei cognomi sardi). Nel caso il lettore sia a conoscenza di ulteriori informazioni, nei commenti all’articolo potrà integrare o chiedere di modificare eventuali inesattezze che, sicuramente, non mancheranno.
Negli articoli che verranno pubblicati successivamente si analizzeranno le figure più rilevanti, in particolar modo ci si soffermerà sulle storie dei partigiani caduti.
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Fonti principali: – Banca dati della Commissione regionale Triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano; – Banca dati delle deportazioni veronesi; – “Quelli della Montagna: storia del Battaglione Triestino d’Assalto”, di Giacuzzo e Scotti.
Le prime consultazioni politiche libere dopo vent’anni di dittatura fascista, e le prime in cui avevano diritto a votare anche le donne, vennero fissate per il 2 giugno 1946. In questa giornata i cittadini italiani furono chiamati a votare per l’elezione dell’Assemblea Costituente (cui sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale) e per decidere, mediante referendum, se mantenere in piedi l’istituto monarchico o fare dell’Italia una repubblica.
Nelle elezioni per la Costituente, la Democrazia cristiana si affermò come primo partito a livello nazionale, seguita a grande distanza dal Partito socialista (Psiup) guidato da Nenni e subito dopo dal Partito comunista. L’Unione democratica nazionale che raccoglieva, assieme ai liberali, i maggiori esponenti della classe dirigente prefascista ebbe un risultato modesto, poco più del movimento dell'”Uomo qualunque” (che riscosse consensi tra la piccola e media borghesia spaventata dall’avanzata delle sinistre) e dei repubblicani. Si registrò inoltre l’autentica disfatta del Partito d’azione. Quanto alla destra vera e propria, nel clima del dopo liberazione appariva fuori dai giochi: il Movimento sociale italiano controllato dai neofascisti si sarebbe costituito solo nel dicembre del 1946, e i gruppi di destra finirono così con l’ingrossare le file della DC, gli schieramenti monarchici e il movimento qualunquista. Le votazioni del 2 giugno furono caratterizzate da un’affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni libere in Italia: votò l’89,08% degli aventi diritto.
Risultati elezioni Assemblea Costituente (partiti più rilevanti per la nostra indagine):
ITALIA
VOTI
%
Democrazia cristiana
8.101.004
35,21
Partito socialista
4.758.129
20,68
Partito comunista
4.356.686
18,93
Unione democr. nazionale
1.560.638
6,78
Fronte dell’Uomo qualunque
1.211.956
5,27
Partito repubblicano
1.003.007
4,36
…
…
…
Partito d’azione
334.748
1,45
Partito sardo d’azione
78.554
0,34
_____
Anche in Sardegna la DC risultò il partito più votato, riuscendo così a eleggere ben 6 rappresentanti: Antonio Segni di Sassari che diventerà, nel 1962, il quarto Presidente della Repubblica (40.394 voti), Gesumino Mastino di Silanus (20.576), Salvatore Mannironi di Nuoro (20.121), Francesco Chieffi di Ittiri (17.184), Francesco Murgia di Olzai (13.854) e Battista Falchi di Sassari (12.343). Tra i risultati più interessanti si segnala il secondo posto del Partito sardo d’azione che riuscì a eleggere due esponenti di prestigio: Emilio Lussu di Armungia con 17.853 preferenze e Pietro Mastino di Nuoro con 15.934. Il Partito comunista in Sardegna conquistò un solo seggio con Velio Spano di Teulada (21.841 voti), così come il Movimento qualunquista guidato da Giuseppe Abozzi di Sassari, eletto con 18.436 preferenze. Il Partito socialista ottenne un risultato molto deludente rispetto al dato nazionale (solo l’8,84% di consensi) con un unico esponente eletto: Angelo Corsi di Capestrano (9.733 voti). L’affluenza in Sardegna si attestò all’85,91%, leggermente più bassa rispetto al dato nazionale.
SARDEGNA
VOTI
%
Democrazia cristiana
216.958
41,14
Partito sardo d’azione
78.554
14,89
Partito comunista
66.100
12,53
Fronte dell’Uomo qualunque
65.142
12,35
Partito socialista
46.633
8,84
Unione democratica nazionale
33.353
6,32
…
…
…
_____
I tre capoluoghi di provincia come erano schierati politicamente?
Scontata, anche a Cagliari, la vittoria della DC, il risultato più sorprendente fu la fiducia accordata al Fronte dell’Uomo qualunque, con oltre 14.000 preferenze. Anche nel capoluogo il Partito socialista ottenne un risultato deludente, al di sotto della media regionale. L’affluenza a Cagliari fu pari all’84,44%.
CAGLIARI
VOTI
%
Democrazia cristiana
16.748
31,12
Fronte dell’Uomo qualunque
14.860
27,61
Partito comunista
7.134
13,26
Partito sardo d’azione
5.944
11,05
Unione democr. nazionale
3.913
7,27
Partito socialista
3.597
6,68
…
…
…
_____
Risultati simili si ebbero a Sassari, con la Democrazia cristiana che ottenne una percentuale di preferenze in linea con il dato regionale. Exploit del movimento qualunquista che fu premiato soprattutto nelle città del Centro-Sud, con i centri urbani sardi che seguirono questa tendenza. Da segnalare i pochi consensi che ottenne il Partito sardo d’Azione, superato anche dall’Unione democratica nazionale. L’affluenza a Sassari si fermò al 77,43%.
SASSARI
VOTI
%
Democrazia cristiana
11.342
41,26
Fronte dell’Uomo qualunque
7.805
28,40
Partito socialista
2.749
10,00
Partito comunista
2.304
8,38
Unione democr. nazionale
1.267
4,61
Partito sardo d’azione
1.152
4,19
…
…
…
_____
Anche a Nuoro la DC si affermò come primo partito, seguito a notevole distanza dal Partito sardo d’azione che poteva contare sugli ampi consensi a favore del nuorese Mastino, che venne poi eletto. L’affluenza a Nuoro si attestò all’88,84%, leggermente superiore al dato regionale.
NUORO
VOTI
%
Democrazia cristiana
2.378
35,33
Partito sardo d’azione
1.236
18,36
Fronte dell’Uomo qualunque
1.162
17,26
Partito comunista
960
14,26
Partito socialista
579
8,60
Unione democr. nazionale
290
4,31
…
…
…
_____
Se i capoluoghi di provincia votarono compatti Democrazia cristiana, come si comportarono i piccoli centri a carattere rurale? A titolo di esempio, focalizzeremo la nostra attenzione su tre paesi del Sarrabus per constatare che le differenze sociali tra campagna e città si rifletterono anche sul lato politico.
A Villaputzu il Partito comunista superò il 32% anche grazie alla candidatura di Claudia Loddo, villaputzese di nascita, che in tutta l’isola ottenne 651 preferenze, troppo poche per poter essere eletta. Al secondo posto la DC, con ben 20 punti in meno della media regionale e, a seguire, il Partito sardo d’azione che ebbe un buon riscontro. Rispetto al voto delle città, il movimento qualunquista non ebbe grande seguito nei paesi. L’affluenza a Villaputzu si attestò all’83,86%.
VILLAPUTZU
VOTI
%
Partito comunista
498
32,11
Democrazia cristiana
325
20,95
Partito sardo d’azione
213
13,73
Unione democr. nazionale
205
13,22
Partito socialista
126
8,12
Fronte dell’Uomo qualunque
97
6,25
…
…
…
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Anche a Muravera il PCI fu il partito più votato, in linea con il dato di Villaputzu. A poca distanza, con un centinaio di voti in meno, la Democrazia cristiana che a Muravera ottenne il consenso più alto tra i paesi del Sarrabus. Il dato più sorprendente è però il risultato del Partito sardo d’azione che non arrivo al 4% di preferenze. L’affluenza a Muravera fu alta, pari all’87,78%.
MURAVERA
VOTI
%
Partito comunista
543
33,07
Democrazia cristiana
445
27,10
Unione democr. nazionale
295
17,97
Partito socialista
138
8,40
Fronte dell’Uomo qualunque
122
7,43
Partito sardo d’azione
63
3,84
…
…
…
_____
Nel 1946 San Vito era il paese più popoloso del Sarrabus, con 2.763 elettori a fronte dei 1.970 di Villaputzu e dei 1.972 di Muravera. Il Partito comunista ottenne un risultato eclatante, arrivando quasi a doppiare i voti della Democrazia cristiana separata da oltre 20 punti percentuali. Anche il Partito sardo d’azione ebbe molti consensi, fu il dato più alto ottenuto nel Sarrabus. L’affluenza a San Vito fu pari all’84,84%.
SAN VITO
VOTI
%
Partito comunista
1.016
46,01
Democrazia cristiana
535
24,23
Partito sardo d’azione
354
16,03
Unione democr. nazionale
105
4,76
Partito socialista
59
2,67
…
…
…
Fronte dell’Uomo qualunque
50
2,26
_____
Ultimo paese oggetto dell’indagine è Armungia, centro del Gerrei, comune di nascita del noto antifascista Emilio Lussu. Trainato dalla candidatura di Lussu, il Partito sardo d’azione arrivò a sfiorare il 76% dei consensi! Gli elettori di sinistra si schierarono a favore di quest’ultimo, lasciando ai due partiti di massa solo le briciole. Molto interessante anche il dato dell’affluenza, con ben 89,52% di votanti.
Recenti collaborazioni e nuove ricerche avviate dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e da vari studiosi hanno permesso di approfondire le storie dei combattenti volontari antifascisti di Spagna, un tempo lasciati ai margini della storia più recente ma oggi sempre più riscoperti e valorizzati.
Ci soffermeremo in questo spazio sulle biografie dei volontari originari del Sarrabus, provenienti esclusivamente dai paesi di Villaputzu e San Vito (non risultano combattenti provenienti dagli altri paesi della subregione).
VILLAPUTZU
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Aledda Antonio (figlio di Giovanni e Mulanu Regina) nacque a Villaputzu il 23 febbraio 1913. Di famiglia operaia, frequentò la scuola fino alla quinta elementare; successivamente lavorò come minatore. Comunista, emigrò in Francia nel novembre del 1927, dove raggiunse il fratello Severino domiciliato a Montigny-en-Ostrevent. Si stabilì poi a Pas-de-Calais e diede avvio a un’intensa attività antifascista, favorita dalla sua precedente adesione alla Gioventù Comunista e in seguito alla CGT (Confederazione Sindacale Francese, n.d.r.). Con lo scoppio della guerra civile spagnola, si spostò in Spagna nel novembre 1936 e si arruolò nel Battaglione Franco-Belga, diventando tenente della 1^ Compagnia del 2° Battaglione della XII Brigata Garibaldi. Insieme alla sua Compagnia, combattè a Cerro Rojo, Ciudad universitaria, Majadahonda, Las Rozas, Pozuelo, Arganda, Farlete, Estremadura, Fuentes del Ebro e Caspe. In data 12 ottobre 1937 venne ricoverato nell’ospedale militare di Villafranca del Panadès per una ferita di striscio al braccio sinistro; durante il conflitto venne ferito due volte in combattimento e una volta in trincea. In Italia venne ricercato dall’O.V.R.A. e iscritto nella Rubrica di Frontiera per il provvedimento dell’arresto. Il 17 giugno 1938 risulta impegnato nella battaglia dell’Ebro, in seguito alla quale verrà dichiarato inabile dal Comando di Brigata e trasferito a un battaglione di istruzione.
Dopo la caduta di Barcellona, avvenuta alla fine del gennaio 1939, riprese le armi entrando a far parte del Raggruppamento Internazionale della XV Brigata che cercava di frenare l’avanzata nemica e facilitare la fuga dei civili in territorio francese. Aledda combatterà fino al febbraio 1939: lasciata la Spagna riparerà in Francia dove verrà internato a Gurs, inizialmente progettato come campo di accoglienza voluto dal governo socialista francese per i rifugiati politici e i combattenti delle Brigate Internazionali fuggiti dalla guerra spagnola. Nel campo riallaccerà i contatti epistolari con il padre, che da Villaputzu invierà aiuti alimentari. Il 15 luglio 1939 dal campo di Gurs scrive al padre: “Oggi vengo di ricevere il vostro pacco, la quale ne restai molto contento io et i compagni che hanno preso parte, che l’abbiamo diviso come buoni fratelli, anzi direi di più che fratelli, e ve ne ringrazio tanto del ricordo che avete avuto per noi, che ci dà più animo di sapere che là di fuori non ci dimenticano, ed noi “Garibaldini” dei campi di concentramento vi affermiamo la nostra volontà di continuare la nostra lotta, subito quando la situazione ce lo permette continuare la lotta che abbiamo interrotto per causa degli avvenimenti che voi tutti sapete, ma statevene sicuri che noi “Garibaldini” non restiamo inattivi, stiamo sempre a studiare et a capacitarsi di più et preparando i nostri nuovi attacchi che quando Mussolini scatenerà la sua offensiva sulla Francia non troverà solo il popolo francese, ma troverà al fianco del popolo francese i Garibaldini di Guadalajara, i Garibaldini di tutti i fronti della Spagna, et li troverà ancora più decisi che mai di liberare il mondo intero”. Uscito dal campo di Gurs, venne arruolato nelle Compagnie di lavoro del fronte francese. Il fratello Severino, nato nel 1897, fu partigiano in Francia.
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Massessi Giovannico (figlio di Pietro e Boy Giuseppina) nacque a Villaputzu il 9 settembre 1909. Emigrò in Francia e prese la residenza a Saint-Etienne. Nel novembre del 1936, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra civile, si spostò in Spagna per dare il suo contributo alla causa repubblicana. Inizialmente fece parte della formazione Picelli, una colonna di 500 volontari del IX battaglione delle Brigate Internazionali comandata da Guido Picelli. Nel dicembre del 1936 la Colonna Picelli fu inglobata nel Battaglione Garibaldi, di cui anche Massessi fece parte. Perse la vita nel settembre 1938 sul fronte dell’Ebro, in quella che venne definita come la battaglia più lunga e sanguinosa della guerra civile spagnola. Il decesso venne annunciato pubblicamente dalle organizzazioni antifasciste di Saint-Etienne.
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Se per lungo tempo si pensava che i volontari di origine villaputzese fossero due, oggi grazie anche alle ricerche di Antonio Martino contenute nel libro “Antifascisti savonesi e guerra di Spagna”, possiamo aggiungere un nuovo nome, quello di Ottavio Tamponi.
Tamponi Ottavio (figlio di Giuseppe e Cadoni Carmela) nacque a Villaputzu il 30 agosto 1897. La sua storia è molto complessa e ancora non del tutto delineata. Lasciò il suo paese di nascita, Villaputzu, alla fine del 1912, all’età di 16 anni, per trasferirsi in Liguria. La sua giovinezza fu piuttosto inquieta, questo è quanto trapela dalle informazioni che la prefettura di Cagliari inviò, nel luglio del 1930, al console italiano a Marsiglia: nel giugno 1912 venne denunciato per un tentativo di furto, venne poi condannato a 8 mesi di reclusione per un furto con scasso avvenuto a Genova nel dicembre 1920, condannato a 2 mesi di carcere militare (pena poi sospesa) per aggressione e percosse avvenuti nell’ottobre 1917, condannato per lesioni personali e aggressione nel 1923 (poi assolto), e infine, in data 23 marzo 1918, venne dichiarato renitente dal Consiglio di leva di Cagliari per non essersi presentato alla visita militare. Nel 1930 sappiamo (grazie a una lettera che inviò al fratello Battista e che venne intercettata dalla censura italiana) che si trovava in Francia, espatriato clandestinamente da qualche anno. Scriveva al fratello: “Caro Battista, sono rinchiuso nel manicomio di Perpignan da un anno e qualche giorno, ti spiego il perchè in seguito. L’anno scorso, dato che non posso restare qui a lungo, pensavo di andare in Spagna perchè lì dicono che non sono schizzinosi come lo sono qui nel chiedere documenti agli stranieri. Ora, quando avevo quasi varcato il confine francese, due carabinieri! Non so cosa stessero facendo in quel posto dove solitamente non c’è nessuno, ma sono stato catturato. Durante la mia fuga sono riuscito a buttar via le carte di un compagno francese e, quando mi hanno catturato, mi sono comportato da matto e non potendo identificarmi, sono stati costretti a mettermi in un manicomio, sorvegliandomi fino al 18 settembre (1930). Infine mi hanno lasciato andare sotto la sorveglianza di due ispettori di polizia: tu puoi immaginare quando mi sono visto con questi due tipi sulle chiappe! Ho dovuto poi cercare un modo per seminare questi farabutti, sono andato in giro per Perpignan, ho preso il treno per Montpellier, li sentivo sempre dietro di me, poi sono entrato in un caffè con due ingressi e questi signori si sono persi e io mi sono accorto che non mi seguivano più. Ho preso il treno per Lunel e mi sono nascosto in questo piccolo villaggio prima di partire in Spagna. Ora la gendarmeria del villaggio ha chiesto le mie carte e non so cosa fare; ho detto loro che sto aspettando il mio passaporto italiano, quindi mi hanno dato 15 giorni. Non so se hai notizie dei nostri fratelli e di nostra madre […]. Ho l’impressione che qui stia diventando peggio che in Italia. Da tutte le parti la disoccupazione è in aumento, puoi immaginare le condizioni degli stranieri in Francia. […] Sarò orgoglioso di sentirti. Ricevi mille baci, tu e la tua famiglia. Il tuo Ottavio(per l’indirizzo metterai Antonio Cadoni…)“.
Per alcuni anni i servizi italiani ne persero le tracce, fin quando nel febbraio 1932 l’ambasciata a Parigi comunicò al Ministero dell’Interno a Roma che Ottavio Tamponi era stato rintracciato dal consolato di Marsiglia ad Aubais. Lasciò Aubais nel 1936 e si stabilì per un breve periodo a a Greasque (Bouches du Rhone), dove abitava il fratello Claudio. Prima di arruolarsi in Spagna nella Brigata Garibaldi, sappiamo che visse per qualche tempo a Bastia (in Corsica), tappa, questa, che sfuggì alla Polizia italiana. Tamponi arrivò in Spagna nell’aprile del 1937. Prima fu arruolato nel Battaglione Garibaldi, poi passò al 1° Battaglione della Brigata Garibaldi, combattendo a Huesca, Brunete e Farlete.
Dopo lo scioglimento della Brigata, Tamponi è segnalato, nel gennaio 1939, nel campo di smobilitazione di Torellò (Catalogna settentrionale). Rientrato in Francia, probabilmente a febbraio 1939, venne internato nei campi di Argelès, Gurs, Vernet d’Ariege (6 mesi) e Recebedou. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e con l’invasione della Francia, la Commissione Italiana per l’Armistizio ottenne l’elenco degli italiani ancora detenuti in Francia, tra i quali si trovava Tamponi, ricoverato dal 29 dicembre 1941 nell’ospedale del campo di Recebedou. E’ in questa occasione che Tamponi diede false generalità per non essere riconosciuto, affermando tra le altre cose di essere nato a Vado Ligure il 30 settembre 1900 (da qui scaturisce l’errore del paese di nascita). Dichiarò di non voler rientrare in patria e, una volta guarito, venne riportato nel campo di Vernet d’Ariege. Il 4 novembre venne iscritto in Rubrica di frontiera con l’indicazione di perquisizione e segnalazione.
A questo punto le informazioni sulla sorte di Tamponi si fanno piuttosto incerte. Gli archivi italiani riportano che fu rimpatriato in Italia e confinato nell’isola di Ventotene. Fonti francesi (Matricule 35494 e Résistance polonaise en Saòne-et-Loire), invece, riferiscono che, a causa della tubercolosi, venne trasferito al sanatorio del campo di La Guiche in Saòne-et-Loire, dove arrivò a pesare 38 kg. Il campo fu poi liberato il 24 marzo 1944 dai resistenti del Battaglione polacco FTP, e fu in questa occasione che Tamponi si diede alla macchia, unendosi ai suoi liberatori del battaglione Mickiewicz. Da partigiano, assunse il nome di battaglia “Spada”. Le ultime notizie di Tamponi risalgono al 14 dicembre 1944, giorno in cui scrisse un testo autobiografico dal castello di Cypierre. Come mai gli archivi italiani lo davano confinato a Ventotene (vedi elenco ANPPIA)? E’ opportuno rilevare che il nominativo “Ottavio Tamponi” compare anche nella Resistenza veronese, in particolar modo viene citato come compagno di lotta di Giuseppe Tommasi quando venne arrestato nel novembre 1943 (vedi pagine Wikipedia, SardiniaPost, Tottus In Pari). Si tratta di un errore? Probabilmente sì, anche se il dubbio rimane.
Ottavio non fu il solo, nella sua famiglia, a essere costantemente vigilato dai servizi italiani, stessa sorte toccò anche ai fratelli. Claudio (n. 1891 a Villaputzu) venne segnalato, già negli anni ’20, come violento elemento eversivo di tendenza socialista, e venne poi seguito anche una volta stabilitosi a Gréasque, dove negli anni ’30 guidò un’organizzazione del partito socialista di cui fu anche segretario. Angelo, emigrato in Cile, svolgeva attività antifascista nel Paese, così come il fratello Battista rimasto in Sardegna.
Candido Manca nacque a Dolianova (CA) il 31 gennaio 1907 da Francesca Zucca e Annibale. Impiegato, residente a Roma. Nipote del colonnello Giuseppe Manca Sciacca (cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, che combatté nelle guerre di indipendenza), nel 1925 si arruolò volontario nell’Arma dei Carabinieri. Prestò servizio a Roma e, dopo i tre anni di ferma, venne richiamato in servizio presso la Legione Territoriale della città nel 1935, nel 1939 e infine nel 1940. Nel frattempo ottenne il diploma di ragioniere e fu assunto nell’Azienda Autonoma Statale della Strada (AASS, poi rinominata ANAS). Durante il conflitto venne arruolato con il grado di brigadiere nella Compagnia Presidenziale e Reale di Roma e il 25 luglio 1943 partecipò all’arresto del duce voluto dal re Vittorio Emanuele III. Quando, il 7 ottobre 1943, le truppe della Wehrmacht e delle SS occuparono le caserme dell’Arma dislocate in città, Manca insieme ad altri trenta carabinieri riuscì a sfuggire ai tedeschi e partecipò al movimento di Resistenza aderendo alla Banda Caruso.
La Banda Caruso, nota anche con il nome di “Fronte clandestino di resistenza dei Carabinieri”, fu costituita interamente da militari dei Carabinieri Reali guidati dal generale Filippo Caruso e divenne, forte dei suoi 6000 uomini, la più forte organizzazione dipendente dal “Fronte militare clandestino” agli ordini del colonnello di stato maggiore Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (anch’egli trucidato nelle Fosse Ardeatine). Tra le vittime dell’eccidio seguito ai fatti di via Rasella, ben dodici furono militari dell’Arma dei Carabinieri, tutti appartenenti al Fronte Clandestino della Resistenza; tra questi ci furono 2 sardi (oltre a Candido Manca anche Gerardo Sergi).
La sera del 10 dicembre 1943, Candido Manca fu catturato dalla Gestapo durante un incontro clandestino a cui partecipano anche il tenente Genserico Fontana, il tenente Romeo Rodriguez Pereira e il colonnello Giuseppe De Sanctis, quest’ultimo il solo a sfuggire all’eccidio. L’appuntamento era stato fissato in via della Mercede 42, a Roma, nello studio dell’industriale Realino Carboni con lo scopo di ritirare dei fondi per il sostentamento dei carabinieri in difficoltà. Forse agevolate da una delazione, le SS guidate personalmente da Kappler, fecero irruzione nell’appartamento, arrestando tutti i carabinieri. Manca fu accusato di organizzare bande di carabinieri sbandati e di essere il loro ragioniere personale. Insieme ai suoi compagni, fu rinchiuso prima nel carcere di via Tasso e poi nella cella n. 253 del braccio tedesco di Regina Coeli dove venne più volte torturato senza mai rivelare nomi di altri partigiani. Nella scheda relativa alla vittima, si sottolinea il fatto che la famiglia abbia tentato tutte le vie, legali e illegali, per la sua liberazione sacrificando i propri averi, vendendo il vendibile e sottostando a varie truffe di persone che assicuravano di poterlo far uscire dalla prigionia. Dal carcere riuscì a mettersi in comunicazione con la famiglia grazie a delle lettere che, clandestinamente, vennero fatte uscire dalla cella nascoste all’interno della gavetta. Fu fucilato nelle Fosse Ardeatine tre mesi dopo la cattura assieme ai due compagni Rodriguez Pereira e Fontana. Nel dopoguerra gli fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare alla memoria con questa motivazione:
«Sottufficiale dei carabinieri appartenente al fronte della resistenza si prodigava senza sosta nella dura lotta clandestina contro l’oppressore tedesco trasfondendo nei suoi compagni di lotta il suo elevato amor di Patria ed il suo coraggio. Incurante dei rischi cui si esponeva, portava a compimento valorosamente le numerose azioni di guerra affidategli. Arrestato dalla polizia nazi-fascista, sopportava stoicamente, durante la detenzione, le barbare torture inflittegli ed affrontava serenamente la fucilazione, pago di aver compiuto il suo dovere verso la Patria oppressa, con l’olocausto della vita».
Il corpo di Candido Manca venne riconosciuto dagli oggetti che portava addosso e che vennero riconsegnati alla famiglia: cappotto, vestito, fazzoletto, camicia, mutande, maglia, boccettina, guanti, catenina d’oro con medaglietta e grammatica tedesca. Tra i firmatari del verbale di riconoscimento vi è la moglie, Lavinia Manca.
Riposa nel sarcofago n. 295 (il fatto che Genserico Fontana sia la vittima n. 293 ci fa capire che i due compagni di lotta morirono assieme). Aveva 37 anni e oltre alla moglie lasciò due bambini di 7 e 4 anni.
Questa è la lettera inviata clandestinamente alla famiglia il 3 gennaio 1944, dal carcere di via Tasso:
Bolò mia cara, ho ricevuto tutti i pacchi, il penultimo conteneva il Mom, di quest’ultimo fammi il piacere di mandarmene ancora, vedi di trovare i barattoli che credo sia migliore. Vuoi sapere come passo i giorni? Puoi immaginarlo, in una cella di metri quadrati 4 e 25 cm. mezza internata con una finestra munita di inferriata, ramata a vetri, semibuia. Come vitto ci danno due pagnotelle, caffè la mattina e appena un pasto di minestra alle 12. Nella cella siamo in quattro e dormiamo sul pagliericcio con due coperte a testa […] La salute è ottima, il raffreddore è quasi scomparso. Con la venuta del quarto abbiamo avuto la sorpresa dei pidocchi. Fattolo sapere al comandante questi ci ha fatto fare il bagno e disinfettare i vestiti al vapore. Dirti le peripezie non basterebbe un quaderno, ne abbiamo passato delle belle e delle brutte. Che vuoi fare ci abbiamo riso sopra. Ti avevo detto di mandarmi roba da mangiare di meno perché tesoro mio vedo che la mia permanenza qui sembra che duri e non vorrei dar fondo a quel poco che abbiamo messo da parte (puoi mandarmi della verdura al posto della carne che nutro desiderio). Quanto vi desidero! Dei giorni sono tanto triste per questo motivo. Per tutto il resto tengo alto il morale data la mia innocenza. […] Quanta tenerezza mi dai quando mi parli dei bambini, sento di adorarli in un modo tale che spesse volte anzi sempre a me e ai miei compagni di cella ci escono le lacrime. Hai fatto male di non aver allestito l’albero di Natale. Perché hai privato gli angioletti nostri di quella contentezza. Ad ogni modo spero che a Mariella per il suo compleanno avrai comprato qualche bel giocattolo e pure a Giancarlo. Come stai in salute? Mi auguro bene. Mandami cento lire specie da dieci e da cinque. Quella somma che avevo addosso è qui in deposito e la daranno quando uscirò oppure alla famiglia se fornita dell’autorizzazione del Comando Tedesco “albergo Flora”. Fammi pervenire il libro di italiano “da Dante al Pascoli” che deve essere sulla ghiacciaia, la copertina è color marrone. Comprami un piccolo dizionario italiano-tedesco, bada deve essere tascabile e deve contenere anche come si pronunziano le parole. Stai attenta a fianco della parola tradotta deve esserci anche come deve leggersi. Al porta pranzo ti sei dimenticata di mettere la guarnizione cosa che ha permesso al signor sugo di uscire. Non ti faccio gli auguri per il nuovo anno ti dico soltanto che questo dovrà apportarci la felicità e la salute, altro non chiedo a Iddio. Ti abbraccio e ti bacio caramente assieme ai bambini. Tuo per sempre, Candido
Giuseppe Medas nacque a Narbolia (CA) il 27 agosto 1908 da Fernando e Francesca Tola. Avvocato, residente a Roma. Rimasto orfano di padre in tenera età, frequentò le scuole elementari a Narbolia e proseguì gli studi a Oristano. Ottenuto il diploma, si trasferì a Roma dove, dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, intraprese la carriera di avvocatura, senza mai tralasciare la sua passione per la letteratura e la filosofia. Nell’ottobre del 1932 si sposò con una ragazza campana, Sofia Salvagni. Convinto di dover dare il suo contributo all’opposizione al fascismo, durante il Ventennio aderì al movimento “Giustizia e Libertà” di Rosselli e Lussu e, dopo la caduta di Mussolini, entrò nelle file del Partito d’Azione. Il suo apporto alla lotta antifascista fu preziosissimo: si occupò della diffusione di materiale propagandistico e giornali clandestini che inneggiavano alla resistenza, cercò di mantenere i contatti con la rete di conoscenze che rischiava di sfaldarsi dopo l’armistizio dell’8 settembre, il tutto sempre a rischio della propria vita.
Il 3 marzo 1944, tra le 18.00 e 19.00, Giuseppe Medas si trovava nell’abitazione dell’avvocato Donato Bendicenti in via dei Gracchi 195 quando la Banda Koch fece irruzione nella casa. Insieme a Bendicenti vennero tratti in arresto anche Medas e un altro avvocato, Ugo Baglivo. L’arresto avvenne con molta probabilità in seguito alla delazione di una spia che era riuscita a infiltrarsi nel Partito d’Azione: Francesco Argentino, alias Walter Di Franco, calabrese di San Lorenzo (Reggio Calabria), stretto collaboratore di Pietro Koch. Tutti e tre gli avvocati vennero arrestati perchè sospettati di attività politica clandestina.
Dopo l’arresto, venne portato alla pensione d’Oltremare, in via Principe Amedeo 2, dove venne malmenato e seviziato durante l’interrogatorio e, successivamente, fu trasferito al 7° braccio di Regina Coeli. La mattina del 4 marzo venne perquisita anche la sua casa e alla famiglia vennero sottratti oggetti di valore e ricordi di famiglia. Nell’abitazione, ispezionata da 3 agenti della polizia fascista, vennero rinvenuti opuscoli del Partito d’Azione. Il 24 marzo, dopo 21 giorni di prigionia, venne prelevato dal carcere di Regina Coeli e assassinato nelle Fosse Ardeatine; il suo nome era il 18° della lista Caruso. Stessa sorte toccò ai compagni Bendicenti e Baglivo.
La salma di Giuseppe Medas venne identificata grazie a ciò che portava indosso: fazzoletto, camicia, vestito, tessera postale e tabacchi. Tra i firmatari del verbale di riconoscimento ci fu la moglie della vittima, Sofia Medas, alla quale vennero restituiti gli oggetti ritrovati.
Riposa nel sarcofago n. 191. Aveva 35 anni. Lasciò la moglie e due bambini di 10 e 9 anni.
Sisinnio Mocci nacque a Villacidro (CA) il 31 dicembre 1903 da Giuseppe e Barbara Piras. Fabbro meccanico, residente a Villacidro. La sua esistenza fu fortemente intrecciata alle vicende storiche dell’epoca. Proveniva da una famiglia di umili origini (il padre bracciante agricolo, la madre casalinga) e fu probabilmente a causa delle difficili condizioni economiche che frequentò la scuola solo fino alla 3^ elementare. A 19 anni fu chiamato alla visita di leva ma venne congedato per motivi fisici, essendo alto solo 154 cm. Nel 1922 lasciò Villacidro e si trasferì a Roma dove trovò impiego come fabbro-aggiustatore meccanico. Nella città capitolina entrò in contatto con gli ambienti del Partito Comunista abbracciandone gli ideali politici e acquisendo una coscienza antifascista. Nel 1925, forse su incarico del Pcd’I, si trasferì ad Albona (oggi Labin, in Istria) per lavorare come aggiustatore meccanico. Due anni dopo, nel 1927, si imbarcò a Trieste, con regolare passaporto, sulla nave “Belvedere” e raggiunse Buenos Aires, meta di tanti emigrati sardi. Nel 1930, seguendo le indicazioni del partito, si trasferì in Francia, stabilendosi prima ad Harnes, ospitato da familiari, e successivamente a Saint Denis. Nell’aprile del 1931 fu espulso per la prima volta dal Paese e inserito nell’elenco dei “connazionali recentemente espulsi dalla Francia e dal Belgio per la loro attività comunista e anarchica”. Il 10 ottobre dello stesso anno venne arrestato ad Aubervilliers, un sobborgo nord-orientale di Parigi, mentre vendeva i giornali la “Vie Proletarienne” e “Battaglie Sindacali”. Nonostante le due espulsioni, riuscì a rientrare in Francia in gran segreto. Nel frattempo, la Regia Ambasciata d’Italia a Parigi si adoperava per avere notizie e informazioni sull’attività del comunista sardo.
Nel 1932 emigrò in Unione Sovietica per motivi politici e vi rimase fino al 1937, quando decise di spostarsi in Spagna per dare il suo contributo alla lotta contro le truppe franchiste. Dopo un breve ma intenso addestramento militare, raggiunse il grado di tenente inquadrato nel 2° Battaglione della XII Brigata Internazionale Garibaldi, con la quale combatté sino al termine della guerra civile, rimanendo anche ferito durante la campagna sull’Ebro. Con la smobilitazione delle Brigate, si unì ai combattenti che cercavano di passare il confine francese e qui venne internato nel campo di Vernet per aver svolto attività comunista all’estero e per aver combattuto in Spagna nella Brigata Garibaldi. Arrestato dalla polizia fascista con la complicità del governo di Vichy, il 14 dicembre 1941 fu trasferito nelle carceri di Buon Cammino a Cagliari e il 16 febbraio 1942 venne assegnato al confino di Ventotene per la durata di 5 anni. A tale riguardo scrive il Prefetto di Cagliari Leone: “Si trasmette una istanza con cui il confinato Sisinnio Mocci chiede una breve licenza per rivedere la madre e la sorella. Questo ufficio, in considerazione che il Mocci si trova in colonia da poco più di due mesi e che la richiesta non è giustificabile da un urgente ed effettivo bisogno, esprime parere contrario all’accoglimento. (Cagliari 13 luglio 1942)”.
Dal confino inviava all’anziana madre (rimasta vedova) e alla sorella Giovanna dei modellini di aerei che venivano poi venduti, e il cui ricavato serviva per sfamare la famiglia. Dopo la caduta di Mussolini avvenuta il 25 luglio 1943, Sisinnio Mocci venne liberato e potè riallacciare i contatti con la rete clandestina del Partito comunista. Raggiunta Roma in tempo per partecipare alla battaglia per la difesa della capitale, entrò nei GAP con il nome di battaglia “Paolo”. Ricercato, venne ospitato come finto maggiordomo nella villa romana di Luchino Visconti, anch’egli impegnato nella Resistenza. «Moccil’ho incontrato due o tre volte. […]. Me lo ricordo come una persona estremamente seria, accigliata, essenziale, completamente dedita alla Resistenza, e si capiva come questa causa occupasse ogni suo pensiero in ogni momento della sua giornata. Dopo il 25 luglio, mio fratello Luchino ed altri si erano adoperati con successo presso il Re per farlo rientrare dal confino e lo aveva ospitato a casa sua, al 366 di via Salaria. […]. Il Mocci diventò uno dei “capi”, se così li possiamo definire, per il quartiere Salario» (Lettera di Uberta Visconti, sorella del regista, a Martino Contu).
Tra gli antifascisti che trovarono riparo nell’abitazione del regista ci fu anche Francesco Curreli (amico di Mocci, fu uno degli esecutori dell’attentato di Via Rasella). «Sisinnio Mocci e Francesco Curreli – affermò Visconti su L’Unione Sarda del 24 aprile 1986 – nell’umiltà e nell’anonimato, hanno patito e lottato. Nell’umiltà e nell’anonimato sono morti, dopo essere stati eroi e artefici della Repubblica italiana».
Catturato il 28 febbraio del 1944 dalle SS, Mocci fu condotto alla pensione Jaccarino, luogo di detenzione e torture della Banda Kock, dove venne interrogato e indicibilmente torturato senza mai rivelare i nomi dei suoi compagni. «Uscì dalla pensione, per essere consegnato alle SS di via Tasso, col vestito completamente imbrattato di sangue, il viso irriconoscibile, il naso ridotto ad un grumo violaceo, le labbra gonfie e gocciolanti. Barcollando, con le costole spezzate, si teneva a un fianco, emettendo uno straziante mugolio ad ogni movimento. Mocci venne infine scaraventato giù dalle scale, piombò a terra e non si mosse. Un giovanotto in divisa lo colpì ancora con un calcio violentissimo, prima che lo sollevassero per l’ultima via Crucis» [L’Unione Sarda, 24 aprile 1986].
Sisinnio Mocci venne giustiziato nelle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Il riconoscimento della vittima da parte degli amici avvenne con l’individuazione del pantalone (che corrispondeva alla giacca che indossava Francesco Curreli, che la ebbe in regalo da parte della vittima), del maglione con chiusura lampo, calze di filo nero, due capsule di metallo bianco. Il verbale di identificazione della salma fu firmato, tra gli altri, da Francesco Curreli e Luchino Visconti.
“L’antifascismo in Sardegna”, a cura di Brigaglia, Manconi, Mattone, Melis;
“Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963)”, di Alessia A. Glielmi.
“Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963)”, di Alessia A. Glielmi.
“L’antifascismo italiano in Argentina tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta del Novecento. Il caso degli antifascisti sardi e della Lega Sarda d’Azione Sardegna Avanti”, di Martino Contu in RiMe Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea;
“Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963)”, di Alessia A. Glielmi.
Tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine ci furono anche 9 sardi.
Salvatore (Rino) Canalis, nato a Tula (SS) il 14 novembre 1908 da Raimondo e Maria Sanna, residente a Roma. Frequentò le scuole elementari a Tula, proseguì gli studi in Sardegna e si laureò a Roma, in Lettere Classiche. Dopo la laurea partecipò alla compilazione del “Grande Vocabolario Latino” e collaborò con l’Istituto di Studi Romani, ottenendo grandi apprezzamenti. Insegnò presso il liceo “Virgilio”, “Mamiani”, poi al “Nazzareno”, al Convitto Nazionale e infine al Collegio Militare di Roma dove ottenne il posto di ruolo per l’insegnamento di lettere latine e greche. Come ricordato da un suo alunno, impartiva anche lezioni private per preparare i ragazzi agli esami di riparazione e di maturità. Nonostante gli impegni lavorativi, si dedicò a varie pubblicazioni come il Commento a “La quarta orazione filippica” di M. Tullio Cicerone e il Commento alle “Satire” di Orazio. Sposò Rogine Ghevaert, conosciuta durante un viaggio in Belgio, nel gennaio del 1936, e da lei ebbe due figli, Giovanna e Gianfranco. Dopo l’armistizio dell’8 settembre contribuì attivamente alla Resistenza romana finanziando un giornale clandestino ed entrando a far parte del Partito d’Azione. La moglie, fortemente preoccupata per l’attività partigiana del marito, lo convinse a farsi assumere tra gli ausiliari delle Guardie Palatine in Vaticano, ma Canalis non abbandonò la lotta. Strinse una forte amicizia con l’avvocato Giuseppe Medas, anch’egli assassinato alle Fosse Ardeatine, ed entrò in contatto con molti esponenti del partito. Quando, il 13 marzo 1944, gli fu chiesto di aderire al governo repubblichino per poter continuare a insegnare, il professore rispose: “Meglio la morte che aderire a questo governo“. Questo atteggiamento, unito a una denuncia anonima che lo accusava di essere badogliano, gli aprì le porte del carcere. Il giorno dopo, intorno alle 22.30, fu prelevato da casa da quattro agenti della banda Kock, prima portato in Questura per un primo interrogatorio e poi alla “Pensione Oltremare”, sede di tortura della famigerata banda fascista. Fu accusato di occultamento di armi, attività propagandistica antinazista e antifascista e appartenenza al Pd’A. Torturato, Canalis non fece i nomi dei suoi compagni partigiani e i fascisti non poterono raccogliere nessuna prova. Trasferito a San Gregorio al Celio, il 24 marzo 1944 intorno alle 16.30 venne portato a Regina Coeli, ultima tappa prima dell’esecuzione alle Cave: il suo era il 40° nome della lista Caruso. La moglie Rogine assistette al momento in cui il marito venne portato via, a bordo di un auto, da San Gregorio. Fu l’ultima volta che lo vide.
L’identificazione della salma da parte della moglie avvenne grazie agli abiti indossati (vestito, camicia, fazzoletto, pullover) e a varie tessere. Particolarmente utile al riconoscimento fu un frammento di una camicia di cotone di color panna con righe sottili rosse. Nel gennaio 2020, la città di Roma ha posizionato in suo ricordo una pietra d’inciampo davanti al numero 26 di piazza Prati degli Strozzi, dove si trovava l’ultima dimora di Salvatore.
Riposa nel sarcofago n. 154. Aveva 35 anni. Lasciò la moglie e due figli di 7 e 5 anni.
Pasquale Cocco, nato a Sedilo (OR) il 5 gennaio 1920 da Antonio Ignazio e Maria Luigia Mameli, residente a Sedilo. Rimase orfano di padre a soli 10 giorni di vita. Frequentò le scuole elementari a Sedilo e, a Santu Lussurgiu, il ginnasio presso i Salesiani. Tra il 1938 e 1939 frequentò un corso di pilotaggio presso l’aeroporto di Borore e conseguì il brevetto di pilota civile di I° grado. Chiamato alle armi nel corpo dell’Aeronautica, seguì corsi di addestramento e di specializzazione in vari aeroporti della penisola: Orvieto, Frosinone, Salerno e infine Foligno, la sua ultima sede prima della firma dell’armistizio. Dopo l’8 settembre, con lo sbandamento dell’esercito, anche Cocco come molti sardi cercò di raggiungere Civitavecchia con la speranza di potersi imbarcare per l’isola. La famiglia perse i contatti dopo l’8 settembre ma seppe con certezza che intorno al 20 settembre si fermò per qualche giorno a Tivoli, ospitato da una famiglia di Sedilo, per poi proseguire verso Roma. Arrivato nella capitale, si sistemò in un pensionato di via Cairoli e si mise in contatto con il personale dell’Ufficio Assistenza Sardi, voluto dal gerarca Francesco Maria Barracu per arruolare nella RSI, nel Battaglione “Giovanni Maria Angioy”, i sardi che, impossibilitati a ritornare nell’isola, chiedevano aiuto. Quando gli venne ordinato di partire al Nord per combattere con i fascisti, pur di evitare la chiamata si tagliò le vene dei polsi. Questo gesto gli costò la consegna alle SS che lo rinchiusero nella cella n. 5 del carcere di via Tasso. Suoi compagni di cella furono il sardo avv. Giorgio Mastino Delrio di Ballao, liberato qualche giorno prima dell’eccidio grazie anche alle sue conoscenze in Vaticano, il medico dott. Manlio Gelsomini, lo studente Orlando Orlandi Posti, Alvino maresciallo paracadutista, Leonardi e Cicconi. Il 24 marzo Cocco, Orlandi, Gelsomini e Leonardi furono uccisi alle Fosse Ardeatine.
Il riconoscimento del corpo da parte della conoscente Alessandra Floriani avvenne in base ad alcuni caratteri somatici, alla divisa da sergente con filetto da allievo ufficiale e a una lettera ritrovata sulla salma. Nel verbale è riportata la testimonianza della donna riguardante la sua conoscenza con Cocco e il ricovero di lui al Policlinico militare del Celio.
Riposa nel sarcofago n. 141. Aveva solo 24 anni.
Gavino Luna, nato a Padria (SS) l’11 aprile 1895 da Pietro e Maria Maddalena Are. Residente a Cagliari, impiegato radiotelegrafista. Dopo aver frequentato le scuole prima a Padria e poi a Pozzomaggiore, si arruolò come soldato volontario nel novembre del 1914. Partecipò alla Grande Guerra fin dalle prime fasi, raggiungendo il grado di caporale nel 46° Reggimento Fanteria. Il 22 giugno 1915, durante i combattimenti sul Sasso di Stria, venne ferito da un colpo d’arma da fuoco alla tibia anteriore della gamba sinistra. Operato a Torino, gli venne ricostruita la tibia con l’applicazione di una sutura metallica in argento. Rientrato in Sardegna, dopo la morte della prima moglie e della figlia di pochi mesi, si risposò a Tresnuraghes con Antoniangela Attene, insegnante, dalla cui unione nacquero tre bimbe: Fausta (morta in tenera età), Wanda e Aida. Invalido di guerra, trovò impiego come ufficiale post-telegrafico prima a Macomer, poi a Cagliari e si dedicò alla sua grande passione, il canto in lingua sarda.
In poco tempo divenne uno dei più noti interpreti e compositori del canto popolare in sardo con lo pseudonimo di Gavino De Lunas. La sua carriera giunse al culmine nel corso degli anni Trenta, quando una casa discografica milanese pubblicò i suoi canti raccolti in numerosi dischi che verranno diffusi a livello nazionale. Nel 1930 firmò insieme a Efisio Melis (celebre suonatore di launeddas di Villaputzu) il suo primo contratto discografico. La sua fama varcò i confini dell’isola e si esibì in varie città italiane: Roma, Trieste, L’Aquila, Sulmona e Brindisi. Durante la visita a Cagliari del re Vittorio Emanuele III avvenuta il 30 maggio 1926, fu l’unico artista invitato a cantare di fronte agli ospiti reali. Tra le sue interpretazioni da solista ricordiamo: Muttos de amore, Sa Tempesta, Prite ses troppu bella; accompagnato dalle launeddas di Efisio Melis: Ballu Cantadu de Logudoro, Cantu Campidanesu, Gosos pro Sant’Alvara; con il soprano Maria Rosa Punzirudu: Muttos a dispretziu.
Negli primi anni Trenta Gavino Luna rifiutò il tesseramento al partito e, giudicato antifascista, venne traferito all’ufficio postale di L’Aquila nel 1932. Durante un violento terremoto che scosse la città, rimase coraggiosamente al suo posto di lavoro e si attivò nei soccorsi, venendo elogiato dal Ministero: “Mi è gradito rivolgere alla S. V. per incarico del superiore Ministero, su mia proposta, una parola di compiacimento per aver dimostrato, in occasione del movimento tellurico del 26 settembre 1933, speciale attività e attaccamento al dovere. Il Direttore Provinciale: Molteni“. Come ricompensa ottenne il traferimento a Roma, alla posta centrale “San Silvestro”. Ritornò in Sardegna un’ultima volta, per incontrare la famiglia, nel luglio del 1939. Con l’entrata in guerra dell’Italia, dal 1940 al 1943 venne richiamato alle armi e inviato a Lubiana per organizzare e dirigere l’ufficio telegrafico della città. Dopo l’armistizio, il 26 ottobre 1943 lasciò Lubiana per ritornare clandestinamente a Roma e riprendere servizio alla Direzione delle Poste di San Silvestro. Fin da subito prese parte attiva alla lotta di Liberazione e aderì al Partito d’Azione. Nella formazione politica di Lussu si adoperò per dare assistenza ai numerosi soldati sardi che, dopo lo sbandamento dell’esercito, arrivarono a Roma con l’obiettivo di imbarcarsi per l’isola. Fu attivo nel C.L.N. e in una formazione partigiana con sede nel Vaticano, con il grado di capitano. Il 26 febbraio 1944, in seguito a delazione, venne arrestato dalle S.S. nel domicilio di via S. Giovanni in Laterano. Insieme a lui si trovavano i partigiani Pietro Sartelli (di Sassari), che si salvò fuggendo e nascondendosi in un serbatoio di acqua nel piano superiore, e Leandro Pittalis, fucilato immediatamente nel tentativo di fuggire. Gavino Luna trascorse i suoi ultimi giorni nel carcere di via Tasso dove venne torturato prima di essere condotto nelle Cave Ardeatine. Suo compagno di cella fu Sebastiano Parodi Delfino che si salvò perchè, gravemente ammalato, venne trasferito nell’infermeria di “Regina Coeli” due giorni prima della rappresaglia. Sarà lui, assieme alla figlia Wanda Luna, a firmare il verbale di riconoscimento della vittima.
Il corpo di Gavino Luna venne riconosciuto dalla presenza della sutura metallica sulla tibia sinistra, posta a seguito della lesione subita durante la guerra del 1915-1918. Alla famiglia vennero riconsegnati gli oggetti rinvenuti sulla salma: il vestito, le mutande e un fazzoletto.
Riposa nel sarcofago n. 63. Aveva 48 anni. Lasciò la moglie e due figlie di 20 e 17 anni.
Alcuni stralci delle lettere inviate ai familiari.
Marzo 1943, lettera scritta alla moglie: “… Dirti la vita di qui non mi è permesso tanto; se non fosse per l’amore della mia patria, che, in qualsiasi modo bisogna servire, ritornerei immediatamente alla mia sede,ma neanche questo ora mi verrebbe concesso”.
13 maggio 1943, lettera scritta alle figlie: “… Ho sempre pensato a voi sia di giorno che di notte e non immaginate quanto sia triste per sapervi poco tranquille in questi calamitosi tempi! Siate sempre buoni, abbiate speranza in Dio che vi dia forza e rassegnazione per affrontare serenamente questo flagello. Anche la mia vita è in pericolo a tutti i momenti e sinceramente è solo opera di Sant’Antonio, nel quale ho profonda fede, se io vivo ancora; come io prego per voi mie adorate figlie, pregate per vostro padre che pure nella lontananza vi tiene sempre nel cuore e tutti i suoi sacrifici sono per voi per vedervi più contente e tranquille in un giorno non lontano… Troppo piccole vi lasciai, non potete immaginare quanto sia grande il mio cuore per voi, darei la mia vita per vedervi ancora una sola volta… Adoro la vostra mamma perchè ha saputo guidarvi nel bene allevandovi tra i più gravi sacrifici. Siatele riconoscenti con l’obbedienza e fatela felice. Vi abbraccio, con tutto il mio cuore con voi. Vostro padre”.
7 agosto 1943, lettera scritta dopo la caduta del fascismo: “… La situazione di qui è abbastanza calma e il fulmine sceso a ciel sereno non ci ha nè scosso nè impressionato, troppe le ingiustizie fatte ai veri lavoratori e troppi i benefici fatti agli immeritevoli e agli indegni! … Nulla mi rammarica perchè quello che si è fatto si è fatto per la Patria adorata… L’alba nuova già sorta c’incoraggerà ancor di più per proseguire senza tentennamento la nostra diuturna opera”.
“Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963)”, di Alessia A. Glielmi.
“Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963)”, di Alessia A. Glielmi.
“Il corpo e il nome. Inventario della Commissione tecnica medico-legale per l’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine (1944-1963)”, di Alessia A. Glielmi.
Il 23 marzo 1944, data dell’anniversario della fondazione dei Fasci italiani di combattimento, a Roma scoppiava una bomba in via Rasella mentre passava una compagnia di polizia tedesca del Battaglione “Bozen”.
In quel giorno, un gruppo di diciassette gappisti romani guidato da Carlo Salinari attaccò la compagnia tedesca che regolarmente percorreva, sempre alla solita ora, lo stesso tratto di strada verso il centro di Roma. Parteciparono all’attentato anche tre partigiani sardi: Marisa Musu di Sassari, Francesco Curreli di Austis (NU) e Silvio Serra di Cagliari, tutti e tre decorati di Medaglia al valor militare.
Alle ore 14 il partigiano Rosario Bentivegna, travestito da spazzino e con una carretta carica di dodici chili di tritolo con accanto altri sei chili di esplosivo, percorse la via Rasella e, giunto all’altezza del palazzo Tittoni, si fermò per attendere i militari tedeschi che solitamente passavano lì intorno alle 14.30, ma che il giorno erano in ritardo di un’ora e mezza. Leggermente distante dalla carretta, all’angolo di via Boccaccio, si trovavano altri partigiani compagni di Bentivegna con il comandante della squadra Salinari e il Vice comandante Calamandrei. Alle ore 15.45, quando la compagnia di polizia tedesca imboccò via Rasella, Calamandrei si tolse il cappello per far capire a Bentivegna che era arrivato il momento di accendere la miccia; attivato l’esplosivo, Bentivegna chiuse il coperchio della carretta e si allontanò verso via Quattro Fontane. Nel frattempo la strada aveva iniziato a popolarsi di gente, tra cui un gruppo di bambini che, attirati dalle canzoni intonate dai tedeschi, si era accodato alla colonna nazista. I gappisti riuscirono a farli allontare, escluso uno.
La forte deflagazione uccise sul colpo 26 militari, il bambino che aveva seguito la colonna e un civile adulto. Subito dopo l’esplosione, i partigiani nascosti nell’angolo di via Boccaccio (tra questi anche Curreli e Serra) lanciarono bombe a mano contro il resto della compagnia tedesca, quindi si ritirarono verso via Giardini e scapparono rimanendo incolumi. I tedeschi, credendo che le bombe venissero lanciate dalle finestre, iniziarono a sparare confusamente verso l’alto e sui tetti, colpendo a morte 4 civili. Sul luogo dell’attentato giunsero immediatamente il Generale Maeltzer, comandante della città di Roma, il Colonnello Dolmann e alcuni funzionari di polizia italiani, mentre ufficiali e sottoufficiali tedeschi eseguivano una perquisizione nelle case di via Rasella, allineando gli abitanti lungo la cancellata del Palazzo Barberini. Mezz’ora dopo, il Tenente Colonnello Kappler (comandante della Gestapo a Roma) arrivò in via Rasella e ottenne dal Gen. Maeltzer l’incarico di indagare sull’attentato. Come prima cosa, Kappler dispose che i civili fermati nelle case di via Rasella venissero portati in caserma per accertare se, tra loro, qualcuno fosse stato già segnalato negli uffici di polizia, e poi si recò al comando tedesco di Roma. Qui, alla presenza di vari ufficiali, espresse l’opinione che l’attentato fosse stato compiuto da italiani appartenenti ai partiti antifascisti e, con il colonnello Dolmann e il generale Maelzer, preparò le misure di rappresaglia. Verso le 19 quest’ultimo lo informò che al comando era giunto l’ordine di fucilare, entro 24 ore, un numero di italiani decuplo di quello dei soldati tedeschi morti; veniva inoltre precisato che l’ordine proveniva dal Maresciallo Kesselring. In nessun giornale, comunicato radio o manifesto fu presente un annuncio del Comando tedesco in cui si chiedeva ai colpevoli di costituirsi; la rappresaglia fu organizzata nella massima segretezza perchè bisognava colpire il popolo romano che aveva dato il pieno appoggio alla Resistenza. Nel frattempo, erano stati informati dell’attacco in via Rasella Hitler, che ordinò una rappresaglia “che facesse tremare il mondo“, e verso sera Mussolini, che tramite un telegramma seppe della volontà dei tedeschi di fucilare centinaia di italiani ma decise di aspettare e di non chiamare il führer.
Un primo problema, per i tedeschi, riguardò le persone da fucilare. Secondo accordi presi in precedenza, la scelta sarebbe dovuta ricadere su persone condannate a morte o all’ergastolo e su persone arrestate per reati per i quali era prevista la pena di morte e la cui responsabilità fosse stata accertata in base alle indagini di polizia. Dopo la redazione della lista ci si rese conto che, nell’elenco appena stilato, un numero importante non rientrava nella categoria dei “meritevoli di morte”: 57 erano ebrei detenuti solo a causa delle leggi razziali e destinati ai campi di concentramento. Inoltre, Kappler venne informato che, delle persone arrestate in via Rasella, solo pochissime risultavano pregiudicate, colpevoli di possesso di “oggetti proibiti” come bandiere rosse o fogli di propaganda. Si decise comunque di inserire nella lista gli ebrei incarcerati, in modo da raggiungere il numero necessario per la rappresaglia, e di liberare i fermati di via Rasella, fatta eccezione per dieci persone ritenute sospette. Nella stessa serata Kappler chiese al Presidente del Feldgericht Rome l’autorizzazione a includere nell’elenco le persone condannate dal Tribunale Militare alla pena di morte, le persone condannate a pene detentive anzichè alla pena di morte per concessione di attenuanti e le persone denunciate ma non ancora processate. Nel frattempo giunse la notizia che alcuni soldati tedeschi gravemente feriti erano deceduti: il numero delle vittime diventava 32.
Il mattino successivo, Kappler convocò il questore Caruso per comunicargli di stilare una lista di 50 persone da fucilare, nomi scelti tra i detenuti a disposizione della polizia fascista, da sommare alle 270 persone già scelte dai comandi tedeschi. Il questore si impegnò a fornire la lista per le ore 13. Nell’elenco compilato da Kappler con l’aiuto dei suoi collaboratori, tanti erano i detenuti per reati comuni e gli ebrei arrestati per motivi razziali. Una persona era stata addirittura assolta dal Tribunale Militare tedesco e due erano ragazzi appena quindicenni, uno dei quali arrestato perchè ebreo. Con le persone scelte da Caruso, si raggiungeva il numero delle 320 persone da fucilare, il decuplo dei militari uccisi. L’elenco compilato dai tedeschi non è mai stato rinvenuto, evidentemente fu distrutto prima del loro allontanamento da Roma.
Il maggiore Dobrik del Battaglione “Bozen” (cui spettava la vendetta) rifiutò di occuparsi delle fucilazioni accusando l’anzianità dei suoi uomini, lo scarso addestramento all’uso delle armi e appellandosi persino alle superstizioni. Anche il Comando della 14^ armata non accettò il gravoso incarico, con il Col. Hanser che rispose: “La polizia è stata colpita, la polizia deve far espiare“. A questo punto il Gen. Maeltzer incaricò lo stesso Kappler dell’esecuzione.
Kappler si recò nel suo ufficio in via Tasso e comunicò agli ufficiali che tutti gli uomini della Gestapo di nazionalità tedesca avrebbero eseguito la fucilazione di 320 persone. Al Cap. Schutz, che ebbe l’incarico di dirigere l’esecuzione, vennero spiegate le modalità: i soldati avrebbero dovuto sparare un solo colpo al cervelletto di ogni vittima a distanza ravvicinata, ma senza toccare la nuca con la bocca dell’arma. In pochissimo tempo venne anche trovato il luogo adatto per l’esecuzione, una cava che, con la chiusura dell’ingresso, sarebbe diventata una perfetta camera sepolcrale. Intanto Kappler, avuta notizia della morte di un altro soldato tedesco tra quelli rimasti feriti nell’attentato, ordinò di includere nella lista altri 10 ebrei arrestati in mattinata.
Alle ore 14, le prime vittime, legate con corde e con le mani dietro la schiena, furono fatte uscire dalle loro celle di via Tasso e vennero caricate su diversi autocarri. Prima i secondini tedeschi gli tolsero qualsiasi cosa avessero indosso: denaro, oro, oggetti di valore ma anche cappelli e mantelli. Non furono informate circa la loro sorte per evitare tentativi di liberazione, fu detto loro che quel giorno avrebbero dovuto lavorare. I primi prigionieri arrivarono nel piazzale delle cave intorno alle 14.30. Mentre venivano radunati, Don Pietro Pappagallo, un sacerdote arrestato per la sua attività antifascista, impartì la benedizione ai prigionieri. A questo punto, 5 militari tedeschi prendevano in consegna 5 prigionieri, li facevano entrare nella cava, debolmente illuminata dalle torce tenute in mano da altri soldati, e li conducevano in fondo. Qui, le vittime erano costrette a inginocchiarsi e ogni militare sparava un colpo al prigioniero che aveva in consegna. Priebke e gli altri ufficiali, di volta in volta, cancellavano il nome dell’ucciso dall’elenco. Lo stesso Kappler volle partecipare alle esecuzioni. Le vittime successive attendevano il loro turno, sempre con le mani legate dietro la schiena, sul piazzale dinnanzi alla cava, dove udivano i colpi delle pistole e le urla strazianti dei compagni che venivano giustiziati. Una volta entrate nella cava, alla luce delle torce in mano ai soldati, scorgevano i cumuli di cadaveri ammucchiati. Come accertato dai medici legali che si occuparono della rimozione delle salme, prof. Ascarelli e dr. Carella, esse venivano fatte salire sui cadaveri accatastati e qui erano costrette a inginocchiarsi con la testa reclinata in avanti per essere colpite a morte. I cadaveri furono trovati ammucchiati con le gambe genuflesse, la posizione che avevano dovuto assumere al momento della fucilazione.
Le vittime dei primi autocarri provenivano dal carcere di via Tasso, le altre dal carcere di Regina Coeli. Il questore Caruso, che secondo precedenti accordi avrebbe dovuto consegnare una lista di 50 persone in mano alla polizia italiana, tardò ad adempiere al suo dovere e il Ten. Tunath, stanco di aspettare, incominciò a prelevare i detenuti in maniera indiscriminata. Quando i tedeschi ebbero a disposizione la lista del questore, vennero cancellati 11 nomi per essere sostituiti con le 11 persone che il Ten. Tunath aveva prelevato nell’attesa. Si sceglieva di cancellare gli ultimi nomi della lista perchè persone ritenute meno compromesse, il numero 21 perchè ricoverato all’ospedale gravemente ammalato e il numero 27 che non si riusciva a trovarlo. Terminata l’esecuzione, vennero fatte brillare delle mine che chiudevano la parte della cava occupata dai cadaveri.
Il giorno dopo, il 25 marzo, gli ufficiali riferivano a Kappler che, da un riesame delle liste, risultava che i fucilati fossero 335, 5 vittime in più rispetto al numero stabilito per la rappresaglia. I giornali italiani, quello stesso giorno, uscirono riportando la notizia che, a seguito dell’attentato di via Rasella, erano stati fucilati 10 “comunisti badogliani” per ciascuno dei 32 soldati tedeschi uccisi. La popolazione, dunque, sapeva che il numero delle vittime era di 320: solo con il dissotterramento delle vittime si scopriva che il numero era di 335 morti. 10, come già detto, furono le vittime aggiunte a seguito della morte di un ulteriore soldato tedesco, le altre 5 furono semplicemente fucilate per errore, perchè il Cap. Schutz e il Cap. Priebke, preposti alla direzione dell’esecuzione e al controllo delle vittime, nella frenetica foga di effettuare l’esecuzione con la massima rapidità, non s’accorsero che esse erano estranee alle liste fatte in precedenza.
Con la liberazione di Roma si decise di dare onorevole sepoltura alle vittime. Anche grazie alla collaborazione delle Autorità alleate si procedette alla nomina di una Commissione delle Cave Ardeatine, presieduta dal Principe Doria Pamphili, sindaco di Roma. Attilio Ascarelli ebbe l’incarico di soprintendere alle operazioni di esumazione e identificazione dei corpi. Un primo sopraluogo venne fatto all’inizio del luglio 1944, con l’obiettivo di rilevare l’andamento della galleria e determinare il punto in cui dovevano trovarsi le salme dei martiri. Rimosse le frane che ostacolavano gli ingressi, il 26 luglio 1944 fu iniziata la rimozione delle salme e lo studio medico-legale di ciascuna di esse. Disseminate tra il terriccio, vennero ritrovate circa 300 cartucce di dinamite e 30 bombe inesplose, sistemate probabilmente con il fine di far crollare le stesse volte che coprivano i corpi. Sul principio si credette che solo lo sfondo della prima galleria fosse stato adibito al massacro, ma poi si scoprì un altro cumulo cadaverico nello sfondo della galleria disposto ad angolo retto alla prima. I due cumuli, composti da salme ammucchiate, occupavano uno spazio di circa 5 metri di lunghezza, 3 di larghezza e 1,5 di altezza. Molti cadaveri presentavano le gambe flesse sotto l’addome, quasi tutti avevano le mani legate dietro la schiena, due soli furono rinvenuti tra loro legati con le mani vicine, un altro con le mani davanti e uno completamente libero (le mani di quest’ultimo tenevano strette alcune noccioline). Ogni salma estratta veniva contraddistinta con un numero progressivo che rispettava l’ordine di esumazione, metodo che permise di stabilire che le vittime, distinte per numeri vicini, avevano patito il martirio simultaneamente o quasi. Molto arduo fu il lavoro di identificazione delle salme. Essendo i volti irriconoscibili, venne distribuito un questionario alle famiglie che avevano denunciato la scomparsa e temevano la morte di un loro caro nelle Fosse Ardeatine, al fine di avere dati circa statura, corporatura e segni particolari. Gran conto si tenne delle vesti indossate da ciascuno (foggia, colore, tessitura, marche e qualsiasi cosa potesse caratterizzarle) e gli oggetti che si rinvennero nelle salme (occhiali, orologi, fiammiferi, penne, lettere, fogli…). Alcuni gioielli e parecchie somme di denaro si trovarono nascoste nelle fodere dei vestiti e nelle pieghe dei pantaloni. Grazie a questo metodo di indagine molto complesso si riuscì a identificare gran parte delle salme. A oggi risultano ancora una decina di vittime ignote della strage. Di alcune è noto il nome ma non la corrispondenza con la salma, di altre non si conosce nessun dato.
Tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine si contano 9 sardi:
Diversi furono i combattenti di Villaputzu, Muravera e San Vito che entrarono nelle formazioni antifasciste del Piemonte. I nominativi riportati nella Banca Dati del Partigianato Piemontese sono:
VILLAPUTZU
– Congiu Mario nato il 7 maggio 1917 a Villaputzu. Residente a Villaputzu, nel 1938 partì per prestare il servizio di leva e dopo aver assolto gli obblighi militari, a causa dello scoppio della guerra, venne arruolato come soldato di cavalleria nel reparto Carri Leggeri 3° GRP Lancieri di Novara. Dopo l’attacco tedesco all’Urss, venne deciso l’invio di un corpo di spedizione italiano in Russia e il Reggimento Lancieri di Novara fu chiamato a farne parte. Congiu partì quindi per la steppa russa e visse il dramma dell’Armir; dopo l’offensiva sovietica, nel corso della ritirata, ebbe un principio di congelamento a un piede: “Devo la vita a una famiglia di contadini russi, che mossi da compassione mi hanno curato e sfamato”, dirà lo stesso Congiu. Rientrato con grandi difficoltà in Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre entrò a far parte della Resistenza con il nome di battaglia “Tris”. Dal 27 giugno 1944 fino alla Liberazione fu uno dei partigiani della 2^ Brigata Garibaldi “Ermanno Angiono” (Pensiero), operante nel Biellese. Vivente, ultracentenario.
– Cossu Salvatore nato l’8 dicembre 1918 a Villaputzu. Residente a Villaputzu, durante il conflitto prestò servizio nell’Aeronautica con il grado di armiere. Dopo l’armistizio di Cassibile, nel maggio 1944 entrò nelle formazioni partigiane. Dapprima fece parte della 3^ Divisione Matteotti e poi della 6^ Divisione alpina “Giustizia e Libertà”, Brigata “Domenico de Palo” (attiva nel Canavese), con il nome di battaglia “Sardo”. Contribuì al movimento di Resistenza fino allo scioglimento delle unità partigiane.
– Spiga Giovanni nato l’11 aprile 1920 a Villaputzu. Di professione autista, risulta residente a Casalmorano (CR) quindi potrebbe essersi trasferito in Piemonte durante il fascismo in cerca di lavoro. Allo scoppio del conflitto venne richiamato alle armi come soldato di fanteria, distretto di Cremona. Dopo l’armistizio aderì, dal dicembre 1943 al dicembre successivo, alla R.S.I., nel Battaglione volontari di Sardegna “Giovanni Maria Angioy”, tuttavia, già dal luglio 1944 risulta far parte della formazione partigiana Matteotti, Divisione “Italo Rossi” 3^ Brigata (nome di battaglia “Geppo”) e vi rimarrà con il grado di partigiano fino alla Liberazione.
MURAVERA
– Codonesu Giuseppe nato il 18 agosto 1908 a Muravera. Residente a Roma, sottufficiale di fanteria. Dopo lo sbandamento dell’esercito, nel gennaio 1945 entrò nelle formazioni partigiane di “Giustizia e Libertà”, 10^ Divisione, rimanendovi fino al giugno del 1945. Conosciuto con il nome di battaglia “Sardo”.
– Mattana Saverio nato il 15 agosto 1915 a Muravera. Residente a Torino, tipografo. Arruolato nell’Arma di Cavalleria con il grado di caporale, dopo l’armistizio entrò a far parte delle formazioni partigiane con i nomi di battaglia “Giamur” e “Janto”. Da marzo ad aprile 1944 fu attivo nella 47^ Brigata Garibaldi per poi passare all’8^ Divisione Autonoma “Vallorco”, 32^ Brigata, dal 30 agosto fino alla fine del conflitto.
– Perra Fermo nato l’11 febbraio 1892 a Muravera. Operaio nel settore industriale, risulta residente a Torino. Durante il conflitto, nell’ottobre del 1944 entrò nella 7^ Brigata S.A.P. (Squadre di azione patriottica) “De Angeli” rimanendovi fino alla Liberazione. Per il suo contributo alla Resistenza conseguì il grado di patriota.
– Perra Pierino nato il 30 dicembre 1914 a Muravera. Residente a Torino, dopo l’armistizio entrò nella 2^ Brigata G.A.P. (Gruppi di azione patriottica) dal dicembre 1944 fino al giugno del 1945, con il nome di battaglia “Piero”. Conseguì la qualifica di patriota.
SAN VITO
– Todde Giovanni nato il 25 agosto 1916 a San Vito. Inpiegato, residente a San Vito. Durante il conflitto venne arruolato nell’esercito come Sergente Maggiore del Genio. A seguito dello sbandamento delle Forze Armate aderì alla R.S.I. “Sezione stralcio” provincia di Torino, dal maggio al dicembre del 1944. Nel marzo dell’anno successivo entrò nelle formazioni di “Giustizia e Libertà”, Divisione C, 4° Settore, con il nome di battaglia “Gianni”. Gli è stata riconosciuta la qualifica di benemerito della lotta di Liberazione.