Mazzini e la Sardegna

giuseppe_mazzini

Diversi furono i giornali della Penisola che si occuparono, intorno al 1860, delle vicende della Sardegna a tredici anni di distanza della perfetta fusione firmata il 29 novembre 1847.

Tra questi giornali ricordiamo “Il Diritto” di Torino, espressione della sinistra subalpina e contrario a Cavour, ma soprattutto quelli mazziniani, grazie agli articoli di Vincenzo Brusco Onnis che vennero pubblicati nel giornale “I popoli uniti”, con il titolo Un Processo al Governo, che faceva riferimento a Il Governo e i comuni del Tuveri che lo stesso Mazzini avrebbe citato nel suo scritto del 1861 sulla Sardegna, pubblicato da “L’Unità Italiana”.

Giuseppe Mazzini aveva fatto pubblicare l’articolo sulla Sardegna per opporsi alle voci sempre più insistenti riguardanti una cessione dell’isola alla Francia; voci che stavano circolando negli stessi giorni in cui si stava preparando il trattato di Torino che, il 15 aprile 1860, avrebbe sancito la cessione di Nizza e Savoia alla Francia. Anche la stampa francese, persino dopo la morte di Cavour, continuava a pubblicare articoli sottolineando che l’Italia avrebbe dovuto dare alla Francia un’ulteriore prova della sua gratitudine con la cessione della Sardegna.
Per dimostrare la veridicità di quelle voci, Mazzini faceva riferimento a informazioni riservate, ben conosciute anche a Garibaldi, e a note diplomatiche riservate. I grandi giornali democratici, tra cui “L’Unità Italiana”, riportavano la vasta eco di opposizione che andava da Giovanni Siotto Pintor a Gian Battista Tuveri, che nella peggiore delle ipotesi avrebbe preferito l’Inghilterra alla Francia, fino a Giorgio Asproni, contrario a qualsiasi dominazione straniera.

Ecco cosa scriveva Mazzini:
“La Sardegna fu sempre trattata con modi indegni dal Governo sardo; sistematicamente negletta, poi calunniata; bisogna dirlo altamente perchè quella importante frazione del nostro Popolo sappia che noi non siamo complici delle colpe governative, che conosciamo e numeriamo quelle colpe, e che poi intendiamo cancellarle, appena l’Unità conquistata ci darà campo di provvedere alla libertà e all’ordinamento interno, sociale, e politico. Sì, i molti e lunghi dolori della Sardegna non trovano che indifferenza tra noi; se Bonaparte scende una seconda volta a combattere a fianco del nostro esercito, sulle nostre terre, la Sardegna è perduta per noi. […] Nelle condizioni interne della Sardegna vive un pericolo, sul quale probabilmente il Governo calcola per consumare l’atto nefando. Quel povero Popolo, i cui istinti son tutti italiani, che ricorda in parecchie fogge del suo vestire la tradizione romana e nel suo dialetto più largo numero di parole latine che non è in alcun altro dei nostri dialetti, fu trattato come straniero da un Governo al quale dava sangue, oro ed asilo quando i tempi e le proprie colpe minacciavano di disfarlo. […] Quell’isola dal clima temperato, dal suolo mirabilmente fecondo, destinato dalla natura alla produzione del frumento, dell’olio, del tabacco, del cotone, dei vini, dei melaranci, dell’indaco; ricca di legname da costruzioni marittime, e di miniere segnatamente di piombo argentifero, e posta a sole 45 leghe dal lido d’Italia, fu guardata da un Governo che non fu mai se non piemontese, come terra inutile, buona al più a raccogliere monopolizzatori di uffici, gli uomini i quali, se impiegati nella capitale, avrebbero screditato il Governo. La Sardegna, terra di 1560 leghe quadrate, capace e forse popolata, ai tempi di Roma, di due milioni di uomini, numera oggi meno di 600.000 abitanti. Un quarto appena della superficie agricola è dato alla coltivazione. V’incontri per ogni dove fiumi senza ponti, sentieri affondati, terre insalubri per lungo soggiorno di acque stagnanti, che potrebbero coi più semplici provvedimenti derivarsi al profondo delle valli. Il commercio interno, privo di vie di comunicazione, è pressochè nullo. La Gallura, circoscrizione che comprende un quinto dell’isola, non ha una strada che la rileghi all’altre provincie. Le crisi di miseria vi sono tremende. Negli anni 1846 e 1847, un quinto della popolazione mendicava da Cagliari a Sassari. L’emigrazione dovè talora interrompersi per decreto. Come nel primo periodo d’incivilimento, sola ricchezza del paese è la pastorizia errante. Un secolo e mezzo di dominio di Casa Savoia non ha conchiuso che a provocare l’insulto del francese Thouvenel. La condizione della Sardegna è condizione di barbarie ch’è vergogna al Governo sardo […]. Il Governo non curò l’isola che per le esazioni. […] In questa Italia che un nostro storico chiamava un corpo di martire. La Sicilia e la Sardegna furono di certo le membre più tormentate. […] Spetta a noi, agli uomini di parte nostra poich’altri non fa, d’impedire quel delitto di lesa-nazione, di ripetere ogni giorno alle popolazioni sarde: «Non badate al presente; è cosa di un giorno; non tradite la patria per esso. Aiutateci a conquistare Venezia e Roma; il dì dopo, la questione della Libertà, oggi sospesa per la stolta idea che le concessioni e il silenzio giovino alla conquista più rapida dell’Unità, concentrerà in sè tutta l’Italia. E in quel giorno l’Italia farà ampia ammenda alla Sardegna delle colpe del Piemonte.»”

Le altre parti degli scritti del Mazzini, possono essere usate ancor oggi come una sintesi della storia della Sardegna a partire dal momento in cui “Vittorio Amedeo accettò a malincuore, e dopo ripetute proteste, nel 1720, da Governi Stranieri, al solito, la Sardegna in cambio della Sicilia. E diresti che la ripugnanza, colla quale egli accettò quella terra in dominio, si perpetuasse, aumentando, attraverso la dinastia…”.
Mazzini assolve, almeno in parte, il regno di Carlo Emanuele III per via delle migliorie introdotte dal Bogino, sottolineando però la raccomandazione che veniva fatta al re di non abbellire soverchiamente la sposa, perchè altri non se ne invaghisse. Poi il licenziamento del ministro, e il peggioramento delle condizioni dell’isola, che diventò “una spugna da premersi per cavarne lucro, un campo d’esazioni e di traffichi disonesti”.
Giuseppe Mazzini presenta dunque un lungo elenco di ingiustizie, intrecciandole con i fatti storici. “La Sardegna scrisse nel 1792 e nel 1793 una delle più gloriose pagine della nostra storia: pagina di fedeltà al re e d’aborrimento contro lo straniero, che serbò l’isola all’Italia; i discendenti degli uomini che respinsero il primo Bonaparte dalle piazze della Maddalena non possono cedere alle seduzioni dell’ultimo. Non parlo della difesa contro gli assalti dell’ammiraglio  Truguet, ma dell’ardore di sacrificio col quale fu preparata. Mentre il Governo operava a rilento, e peggio, tanto da far credere allora, come oggi, che s’avesse in animo di cedere l’isola alla conquista straniera, i sardi, al primo minacciar dei francesi, sorgevano energici, operosi, devoti. Tale si mostrò la Sardegna in quella tempesta. E se oggi l’entusiasmo fosse, nei ventidue milioni d’Italiani indipendenti, la metà di quel che era nei Sardi d’allora, due mesi ci darebbero l’Unità della Patria compita. E invece respinto lo straniero, il Governo, che non temeva più, cominciò a sentirsi libero di mostrarsi ingrato, e si mostrò tale in modo imprudente davvero. Gli uomini che avevano salvato il Paese dall’invasione, furono negletti, sprezzati. Il Governo aveva sulle prime chiesto al Popolo sardo d’esprimere i suoi desideri; e furono inviate solennemente a Torino dai tre Ordini o Stamenti dell’isola, cinque domande, due delle quali – ristabilimento delle corti o parlamentari decennali, e ristabilimento degli uffici agli indigeni – erano vitali. In margine alla seconda il Graneri scriveva: solite ripetizioni. L’una e l’altra erano ricusate e con insolenza di modi, dacchè il rifiuto, mandato direttamente al vice-re, non era comunicato agli inviati che aspettavano risposta in Torino. E nell’isola, gl’impiegati piemontesi beffeggiavano i sardi, e canzoni villane contro essi si cantavano alla mensa del vice-re. Le cose andarono tanto oltre che, mancata la pazienza ai sardi, una sollevazione di popolo costrinse vice-re e piemontesi, quanti erano, a imbarcarsi, il 7 maggio 1794, pel continente, rispettando gelosamente persone e sostanze. Il Governo non dimenticò mai quella vittoria dei sardi e diresti ne durasse tuttavia la vendetta”.

Giuseppe Mazzini racconta inoltre le gravi ingiustizie che ancora venivano perpetrate a danno dei Sardi nella prima metà dell’Ottocento, come il feudalesimo, i tributi feudali e i privilegi del clero. Le tre leggi fondamentali per la modernizzazione della Sardegna, quella delle chiudende, dell’abolizione del feudalesimo e delle decime al clero, erano poi state condotte non a vantaggio, bensì a danno del popolo.

Nell’ultima parte dei suoi scritti sull’isola, dice: “Verso la Sardegna fu peggio: fu governo di tirannide, d’arbitri, di corrutela. Se oggi il Governo pensasse a cedere l’isola allo straniero, e additasse, per diminuirne l’effetto, agli Italiani le condizioni interne, sarebbe senz’altro colpevole di tradimento verso la Nazione: verso la Sardegna […]. No; l’Italia non sarà una seconda volta rea di suicidio e d’ingratitudine. E le colpe del Governo da me accennate, saranno ad essa una nuova cagione per proteggere dalle trame altrui la Sardegna. Abbiamo tutti debito, fatto più sacro da quelle colpe, ed è di lavarle col beneficio reso più che agevole dagl’istinti buoni e dall’ingegno svegliato dei sardi. Bastano a maturare nuovi e migliori fatti alla Sardegna una amministrazione onesta, fidata in gran parte ad uomini suoi – una rete di strade – una serie di provvedimenti riguardanti le foreste, le arginature, i ponti, i canali di scolo, una scuola normale per architetti civili ed ingegneri -due o tre grandi imprese agricole e industriali. Il popolo sardo non ha bisogno che di fiducia in sè, d’amore dato e ricambiato, per essere attivo e capace. Fedele all’istinto italiano fu sempre. Ho ricordato la generosa difesa contro l’invasione francese; e ricordo il numeroso contingente di volontari mandato nel 1848 dall’isola: e i giovani sassaresi, ai quali strinsi la mano quando accorsero per far parte della spedizione che noi disegnavamo sull’Umbria e le Marche, diedero, per prontezza di sagrifizio, virtù d’affetti fraterni e capacità modesta, un’arra, che non dimentico, dell’avvenire dell’isola. […] Dicano ai loro concittadini di non guardare al Piemonte, ma all’Italia che sta facendosi, e che, fatta appena, terrà la Sardegna come una delle più splendide gemme del suo diadema. […]” Giugno 1861.

Mazzini, il grande patriota, che previde l’Europa unita delle patrie, dei popoli, ognuno con una missione complementare rispetto a quelle degli altri, non solo conosceva la realtà europea e dell’Italia che andava formandosi, ma conosceva bene anche la Sardegna. Conosceva la sua triste storia, e riusciva ad inquadrarla nella visione della patria italiana che stava nascendo…

Per approfondire, si consiglia la lettura:
Patria, Nazione e Stato tra unità e federalismo. Mazzini, Cattaneo e Tuveri.
Scritti di: Cosimo Ceccuti, Leopoldo Ortu, Nicola Gabriele.

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